Carlton Myers, uno dei più grandi cestisti italiani di sempre, è stato l’ospite d’onore alla presentazione di “NBA Overtime”, spettacolare mostra digitale (ma non solo) a cura di Massimiliano e Francesco Finazzer Flory che, dal 15 settembre al 1 ottobre al Samsung District di Milano, permetterà agli appassionati di immergersi a 360° nel magico mondo del basket americano. Dopo gli inizi a Rimini (e la gara da 87 punti contro Udine, il 26 gennaio 1995), Myers è diventato una stella con la maglia della Fortitudo Bologna, squadra che ha trascinato a quattro finali consecutive, culminate con lo scudetto del 1999. Quello stesso anno, Carlton è stato anche il capitano della grande Nazionale vittoriosa agli Europei di Francia. A poche ore dall’eliminazione dell’Italia da quest’ultima edizione di Eurobasket, abbiamo fatto qualche domanda a riguardo ad un Myers ancora amareggiato.
Carlton, cosa è mancato secondo te a quest’Italia per fare strada all’Europeo?
“Stazza, centimetri. I nostri lunghi avevano una modesta presenza fisica ed evidenti limiti offensivi. Ci hanno messo agonismo, determinazione, hanno lottato, però ad un certo punto è indispensabile essere incisivi su entrambi i lati del campo. A questo aggiungiamo che avevamo guardie o brave a tirare da fuori, oppure a penetrare, ma nessuna in grado di unire queste due caratteristiche. A questo livello, contro squadre di questo genere, bisogna essere in grado di fare bene entrambe le cose. La cosa che invece è migliorata, anche rispetto al pre-Europeo, è stata la fase difensiva. Quando incontri una squadra come la Serbia, però, diventa tutto più complicato.”
Tu appartieni alla generazione d’oro del basket italiano, quella che tra la fine degli Anni ’90 e i primi del 2000 è arrivata ad un livello mai raggiunto, né prima, né dopo. Cosa vedevi in quella Nazionale che non vedi più adesso?
“Mah, ritorno a quanto dicevo prima: i centimetri e la stazza, innanzitutto. Quelle Nazionali avevano almeno quattro giocatori sopra i due metri e dieci, spesso statici, ma allo stesso tempo pericolosi da fuori. Parliamo di Galanda, di Fucka, di Chiacig, di Marconato, aggiungiamoci anche Marcelo Damiao, che forse molti non ricordano, ma che era un giocatore estremamente importante. Oltretutto, i ‘piccoli’ erano in grado sia di penetrare, che di tirare da fuori. Se io, difensore, devo marcare un avversario che tira solo da fuori, ho gioco facile: basta che gli sto attaccato, ed è finita la partita.”
Visto che ci troviamo all’inaugurazione di una mostra sulla NBA, l’ultima domanda riguarda proprio il basket americano. Qual è stato il tuo primo impatto con la lega statunitense?
“In realtà il mio primo impatto con la NBA è avvenuto solamente due o tre anni fa, perché mio figlio più grande si è appassionato e la segue molto. Io non ho mai avuto particolari contatti con il mondo NBA, oppure una squadra per cui tifavo. Chiaro, se mi parli di Michael Jordan, lo conosciamo tuti bene, così come oggi è noto a tutti lo strapotere fisico, atletico e anche tecnico di LeBron James. Poi c’è Steph Curry, uno che può tirare anche con la mano del difensore in faccia. La NBA è un mondo a parte, in cui all’interno dell’evento viene costruito un altro evento. Una cosa che dovremmo imparare a fare qui in Italia, anche se con i palazzetti che abbiamo diventa tutto più difficile. Ma qui si entra in un discorso ben più ampio…”
L’intervista integrale, realizzata in collaborazione con Domenico Taverriti, si può trovare a questo link.