Three Points è la rubrica di NBA Passion, in cui parliamo dei tre fatti del momento, dei tre temi caldi per il mondo della palla a spicchi americana.
Come ogni anno, la stagione NBA si concede una piccola pausa, prima dello sprint finale. L’All-Star Weekend viene sempre accolto in modo contrastante dagli appassionati, anche da quelli più attenti e accaniti, che pur dovrebbero ormai averne colto appieno il senso. Qualcuno non esita e definirlo “una pagliacciata”, che non meriterà nemmeno un briciolo della sua attenzione, salvo poi recuperarne prontamente gli highlights e commentarne con toni da esperto gli esiti. Molti altri lasciano da parte ogni pretesa e si godono lo spettacolo messo in scena ogni anno dalla lega. Questo approccio permette loro di accorgersi che, con i suoi pregi e i suoi difetti, con le sue unicità e le sue esagerazioni, l’All-Star Weekend è ancora in ottima forma, e sembra ben lontano dal passare di moda. Anche l’evento di Chicago, alla fine, si è rivelato più che meritevole di essere seguito. in questa edizione di Three Points cercheremo di capire cosa ci ha lasciato.
1 – La doppia faccia dell’All-Star Game 2020
Cominciamo dal piatto principale della tre-giorni di Chicago; l’All-Star Game vero e proprio. L’edizione 2020 si è svolta in circostanze molto particolari. Innanzitutto, una serie di guai fisici di varie entità ha tenuto fuori dai giochi alcuni protagonisti storici della manifestazione: agli infortunati di lungo corso Stephen Curry, Klay Thompson, Kevin Durant e John Wall si sono aggiunti, nel corso della stagione, Kyrie Irving, Paul George e Damian Lillard, sostituito all’ultimo momento da Devin Booker. Con il gioiello dei Phoenix Suns è salito a dieci il numero dei debuttanti, contribuendo a far sembrare ancora di più questo All-Star Game l’inizio di una nuova era. A influire maggiormente sull’evento, però, sono state le scomparse di due giganti come David Stern e Kobe Bryant. Al grande commissioner sono stati dedicati filmati, testimonianze e un emozionante ed emozionato discorso da parte di Magic Johnson, mentre in onore del ‘Black Mamba’ è stato persino rivoluzionato il formato dell’All-Star Game.
L’idea di chiudere la partita senza il cronometro, ma con un punteggio target da raggiungere (24 punti in più sul totale della squadra in vantaggio a fine terzo quarto), sembrava forse troppo macchinosa alla vigilia, ma alla fine si è rivelata vincente. Dopo tre quarti di gioco che hanno fatto gongolare i detrattori (alley-oop e triple senza soluzione di continuità, nessuna parvenza di difesa e giocatori che passeggiavano per il campo), l’All-Star Game 2020 ha cambiato faccia, trasformandosi in ciò che ogni appassionato sogna sempre di vedere: la miglior partita del mondo. Attacchi costruiti, raddoppi, close-out, sfondamenti subiti, fischi contestati, un challenge a testa chiamato da Frank Vogel e Nick Nurse, addirittura qualche accenno di rissa, una tensione palpabile nei momenti decisivi. Se questa ritrovata competitività sia da attribuire al nuovo formato, al desiderio di omaggiare Kobe, all’attitudine dei capitani (LeBron James e Giannis Antetokounmpo), a un moto d’orgoglio in risposta alle critiche o alla somma di tutti questi fattori, lo scopriremo solo guardando le prossime edizioni. Quella del 2020 è stata indubbiamente godibile. Forse si è addirittura rischiato troppo, per un All-Star Game. Nel lungo finale, gli allenatori hanno tenuto in campo senza pause i quintetti titolari, con le notabili eccezioni degli scafati veterani Chris Paul e Kyle Lowry al posto dei giovanissimi Luka Doncic e Trae Young. Da un lato, ciò ha premiato i migliori tra i migliori (come Kawhi Leonard, eletto MVP grazie a un’insensata raffica di triple a inizio gara e alla solita freddezza nel finale) e ha dimostrato come la leadership e l’esperienza, spesso, abbiano ancora la meglio sul puro talento, dall’altro ha sottoposto gli atleti a un’intensità che, molto probabilmente, le rispettive franchigie non avevano previsto. Questo aspetto andrà certamente perfezionato nelle prossime edizioni; se c’è qualcosa che farebbe davvero del male alla NBA, in un All-Star Game, quello sarebbe un infortunio.
2 – All-Star Saturday, spettacolo e polemiche
L’All-Star Saturday è quasi sempre una garanzia di successo. Anche (o soprattutto) per i fan occasionali, le tradizionali gare del sabato esercitano un fascino immutabile. Il Three Point Contest è una competizione che si scrive da sola, che non ha bisogno di continui rinnovamenti o di variazioni radicali. Basta prendere ogni anno i migliori tiratori al mondo e far loro ‘aprire il fuoco’ dai variopinti carrelli (quest’anno sono stati aggiunti due tiri da circa 9 metri, presi sempre più di frequente nella nuova NBA). Per gli atleti nessun rischio e, anzi, la possibilità di un allenamento supplementare sotto pressione, per il pubblico un cast sempre di primissimo livello; scorrendo l’albo d’oro si leggono nomi del calibro di Larry Bird, Ray Allen, Dirk Nowitzki, Kyrie Irving, Stephen Curry, Klay Thompson e di molti altri giocatori passati anche dall’All-Star Game della domenica. L’edizione 2020 ha avuto anche un finale in volata, con Buddy Hield che ha superato all’ultimo tiro il punteggio di Devin Booker.
Lo Skills Challenge lascia sempre il tempo che trova: è un giochino che ricorda sinistramente l’Agility Dog, e che nessuno è realmente interessato a vincere. Il fatto che a trionfare siano sempre i lunghi non è un’interessante dimostrazione dei tempi che cambiano, come continuano a ripetere i telecronisti americani. Basti pensare che il nuovo ‘campione’, Bam Adebayo, ha segnato una sola tripla, su undici tentativi totali, nell’intera stagione 2019/20. Le stessa tripla che gli ha permesso di vincere questa ‘imperdibile’ competizione…. Ridateci lo Shooting Stars e il Team Bosh!
L’evento più atteso dell’All-Star Saturday, però, è indubbiamente lo Slam Dunk Contest. L’edizione del 2020, tra le migliori di sempre, ha dimostrato che non servono chissà quali innovazioni regolamentari o idee strampalate per mantenere vivo l’interesse: bastano i grandi schiacciatori. E i due finalisti, Aaron Gordon e Derrick Jones Jr., sono due eccezionali schiacciatori. Pochi effetti speciali, costumi di scena o coreografie: solamente puro atletismo, da mozzare il fiato. La mancata vittoria di Gordon (già discutibilmente privato del titolo nel 2016, dopo l’epico duello con Zach LaVine), ha suscitato diverse polemiche, ma sarebbe disonesto togliere meriti a Jones. Un pareggio sarebbe stato forse la soluzione migliore, ma da un errore di comunicazione tra i giudici è nato un ‘pasticcio’ che ha chiuso la gara in un modo diverso da quello preventivato. Si potrebbe questionare sull’effettiva competenza dei giudici stessi ma, in fin dei conti, chissenefrega: è l’All-Star Game, mica un’Olimpiade!
3 – Perchè l’All-Star Weekend è l’All-Star Weekend!
L’All-Star Weekend è come il Festival di Sanremo: all’inizio viene criticato e non interessa a nessuno, poi tutti lo guardano e tutti ne parlano. Come la manifestazione canora più amata dai non appassionati di musica, anche l’evento NBA, quest’anno, ha regalato qualche polemica e si è rivelato un successo, sia in termini qualitativi, sia commerciali (battuti i record di vendite per il merchandising ufficiale). I suoi detrattori, come i detrattori di parecchie altre cose, non riescono a prenderlo per ciò che è: una festa della NBA. Chi non segue la lega abitualmente può farsi conquistare dallo Slam Dunk Contest o da una giocata spettacolare di Russell Westbrook o Ben Simmons, chi la vive tutti i giorni può fare il punto sul suo stato di forma e sulle storyline che caratterizzano la stagione. Molti dei giocatori convocati vivono un’esperienza indimenticabile, a stretto contatto con colleghi di cui, da grandi, parleranno ai nipotini. Qualcuno si regala un trofeo in più e offre al pubblico qualche momento da ricordare. Sia per chi partecipa, sia per chi va al mare, la pausa è l’occasione per staccare un attimo la spina, prima di tuffarsi nella parte più intensa della stagione, quando arriveranno le partite da giocare ‘per davvero’. A condire il tutto c’è l’inconfondibile senso dello spettacolo americano, sublimato nei tre giorni di All-Star Weekend. Da una parte le immancabili ‘tamarrate’, tra cui è doveroso citare l’esibizione di Dame D.O.L.L.A. (a.k.a. Damian Lillard), dall’altra delle autentiche perle, come lo straziante omaggio a Kobe Bryant da parte di Jennifer Hudson e l’epica introduzione degli All-Star firmata da Common.
E poi c’è il Rising Stars Challenge, la partita più divert… No, il Rising Stars Challenge è una baracconata inguardabile e incommentabile. Giovani stelle dal potenziale immenso che trotterellano per il campo senza il minimo scopo, se non quello di mostrare quanto in alto salta Zion Williamson, da quanto lontano tira Trae Young e chi cerca di imitare peggio la Remix di Tracy McGrady. Perchè si sfidano USA e Resto del Mondo? Quale squadra ha vinto quest’anno? Chi è stato l’MVP dell’anno scorso? Quali sono le giocate da ricordare nelle ultime quattro/cinque edizioni? La risposta è sempre la stessa: “Boh, ma a chi importa?”. Dare un senso alla serata del venerdì (magari cominciando col riproporre il formato dell’ultimo All-Star Game?) è l’ultima sfida rimasta alla NBA per garantire lunga vita ed eterna gloria al suo Weekend delle Stelle.