Ci sono strade nelle quali siamo perennemente di passaggio, strade di cui riconosciamo persino l’odore, strade che percorriamo senza sapere con quali altre si incroceranno, strade buie che ci obbligano a fare i conti con le nostre paure ed altre così ben illuminate da costringere le ombre che vi si stagliano ad allungarsi talmente tanto da sparire dietro qualche angolo cieco. Ci sono strade che ci portano lontano, e quelle che ci riportano a casa.
Alla fine degli anni settanta, Oakland in California è una delle città con più ferite aperte, tra quelle teatro degli scontri razziali, politici e sociali che irrorano di sangue e odio i vasi linfatici di una guerra civile che rimarrà in eredità alle generazioni future. Delle lotte non violente, delle marce pacifiche e dei progetti di uguaglianza e giustizia, che avevano contribuito a mitigare gli effetti del “Sistema Jim Crow” e delle sue infami leggi a favore della segregazione, soprattutto negli stati del Sud, rimangono solo le lapidi e la consapevolezza che l’incubo ha sempre più possibilità di avverarsi rispetto al sogno. E neppure della visione radicale e della lotta armata di Huey P. Newton, Bobby Seale e del “Black Panther Party for self defense” (nato proprio nel Campus cittadino, all’interno del Merritt Community College) resta più tanto. L’FBI e i Servizi Centrali hanno quasi smantellato del tutto i chapters del partito, nati in tutto il Paese, con un’operazione di intelligence denominata COINTELPRO.
In quelle stesse strade, quasi a ridosso del Peralta District, vive Lorraine, un’infermiera nera che fa i doppi turni per consentire ai figli Jamal, Steve e Paul di crescere senza farsi sopraffare dal contesto e dalla mancanza totale di mezzi a disposizione. I primi due sono nati da una precedente relazione della donna, mentre il più piccolo è figlio di George Pierce, in entrambi i casi, i padri non risultano in servizio effettivo presso la famiglia. Lorraine sa perfettamente che in quel quartiere è più facile che i ragazzi finiscano sul giornale come ennesime vittime designate del sistema, che per il raggiungimento di un qualsiasi traguardo illustre. La sua preoccupazione le fa cogliere la concomitanza dell’aggravarsi delle condizioni di salute della madre, come l’opportunità per trasferirsi a Inglewood, Los Angeles. Qui non è Hollywood ma, quantomeno, possono contare su una comunità fatta di persone disposte ad aiutarsi nel limite del possibile, sostituendosi anche alle istituzioni quando queste risultano assenti. In più i ragazzi vengono spinti dalla madre ad impegnarsi nello sport, una delle vie d’uscita più praticate e potenzialmente redditizie. Steve, ad esempio, sembra avere il braccio giusto per ambire a giocare a baseball almeno a livello collegiale. Paul, invece, frequenta la high school locale e non è particolarmente dotato fisicamente, né atleticamente. Ha una nevrile passione per il basket, a dire il vero per i Los Angeles Lakers, questo si, ma il gioco è distante trilioni di anni luce dalle sue possibilità.
Il signor Collins ha pazienza con lui e con gli altri trottolini che stanno affrontando gli stravolgimenti dell’adolescenza senza ben capire cosa fare da grandi. Passa tutto il tempo libero al di fuori delle ore di lavoro per parlare con loro e li allena, dà loro uno spazio e un motivo per non stare per strada. E poi li porta alle partite al Forum. A tutte le partite in casa dei Lakers. Qualche volta li fa sgattaiolare fin quasi a bordo campo. Scott Collins è un detective della polizia di Los Angeles ed è addetto alla sicurezza della squadra più famosa della storia del basket, e sa benissimo quanto questa industria a metà tra sport e spettacolo possa offrire ai suoi ragazzi. Basterebbe che uno solo di loro avesse il talento o la dedizione per aspirare a essere professionista, perché la fame, che da queste parti è l’unica costante, da sola non basta. Paul trova in lui la più classica delle figure paterne e cerca di impressionarlo provando ad entrare nella squadra del liceo. È convinto di poter trovare posto almeno nella Junior Varsity, perché non sarà un campione, ma se ci si lavora su, magari… Tagliato.
Inesorabilmente tagliato e al secondo anno non andrà meglio, venendo “scelto” solo per la Junior.
Scott Collins capisce che deve lavorare sui fondamentali di Paul e sulla sua forma fisica, al momento approssimativa, che a scuola lo costringe a indossare l’unica maglia disponibile della sua taglia, la 34. Lo mette sotto letteralmente e per tutta l’estate, ne cura la preparazione atletica e tecnica, portandolo a crescere di centimetri e a perdere peso. Il legame tra i due si basa sul rapporto causa-effetto di ogni decisione, ci si confronta, si valuta la migliore delle possibilità e si agisce. Come in un’indagine della polizia. L’osservazione è fondamentale, per evitare di tralasciare dettagli che potrebbero rivelarsi determinanti. La perseveranza e la dedizione, insieme alle competenze, porteranno al risultato sperato. Paul entra nella squadra liceale, ne diventa leader, facendosi notare anche nei tornei nazionali giovanili e gioca persino per la squadra della Polizia, con Scott Collins a guidarlo compiaciuto dalla panchina.
La scelta del college è il bivio che traccia l’orientamento della vita di ogni ragazzo americano. Da lì in poi la strada verso casa assumerà un significato totalmente differente, perché non riporterà a quella dei genitori, ma a quella che si sarà in grado di costruire con le proprie forze, tenendo fede agli impegni presi. Suo fratello Steve aveva davvero le qualità per diventare un buon giocatore e scegliendo Fresno State University, ha potuto farsi notare dalla MLB, venendo scelto prima dagli Indians, rifiutati con un gesto elegante e poi dai San Francisco Giants, andare via dalla California è sempre impresa titanica. Anche Paul vorrebbe rimanere nel “Golden State”, ma la sua scelta non è dettata dalla convenienza, né dall’offerta più vantaggiosa dal punto di vista del programma sportivo, sceglie di andare a Kansas per studiare criminologia. Non vuole puntare tutto sul basket, vuole essere utile alla sua gente, vuole ripercorrere la strada che gli ha mostrato Scott. Si può essere determinanti in senso positivo nella vita delle persone, con la presenza costruttiva, l’impegno, il rispetto.
A Kansas lo aspetta coach Roy Williams, il quale neppure sperava di poterlo avere a roster, viste le offerte che il ragazzo aveva ricevuto, ma ringraziando il fato prova a disegnare dei giochi anche per lui che al primo anno viene insignito del premio di Freshman of The Year in comproprietà con Chauncey Billups da University of Colorado. Nell’anno da Sophomore riceve addirittura la convocazione alle qualificazioni ai Mondiali Under 22 per Team USA e chiude l’anno da Junior diventando il quinto miglior realizzatore di sempre nella storia dei Jayhawks. Nei tre anni al college ha capito di poter affinare il tiro dalla media fino a renderlo quasi infallibile e ha cominciato a centellinare gli attacchi al ferro per preservare più a lungo la schiena. Sente che le possibilità di una chiamata al draft NBA non solo sono concrete, ma diventano sempre più calde le piste che lo vorrebbero tra le prime tre scelte. Si dichiara eleggibile nel 1998 e sa che con ogni probabilità non si concretizzerà il sogno di indossare i colori dei Lakers, visti i piazzamenti nella Lottery. Va bene tutto, ci mancherebbe, in fondo si tratta di fare il passo definitivo e di entrare tra i pro. Ecco, magari i Celtics no, quelli proprio li eviterebbe come un accertamento del fisco.
Le prime tre scelte non lo sfiorano neanche, la prima assoluta va a Los Angeles, manco a dirlo, sponda Clippers, ed è il centro nigeriano Michael Olowokandi. Se sei la franchigia più perdente della storia ci sarà un motivo! Hai la prima chiamata e non vai da Vince Carter, Mike Bibby, Antawn Jamison, no.
Prima di Paul ci sono anche Jason Williams e Raef LaFrentz, autori rispettivamente del passaggio più artistico e visionario e della successiva ricezione più storta e censurabile della storia dell’All-Star Game. Alla nove i Bucks gli preferiscono Dirk Nowitzki, immediatamente ceduto a Dallas in cambio di Robert Traylor e Pat Garrity, una rapina più che uno scambio.
A questo punto è chiaro il disegno degli Dèi del Pantheon a spicchi, in vena di applicare la tanto vituperata Legge di Murphy, che architettano tutto in modo che il Commissioner dei Commissioners pronunci la fatidica formula: “With the 10th pick, the Boston Celtics select Paul Pierce, from University of Kansas!”.
Ecco, ci siamo, hai trascorso gli ultimi vent’anni a tifare contro la squadra che adesso ti offre la svolta della vita. Il percorso comincia già in salita. A dire il vero la strada più che ripida sembra non essere nemmeno una strada.
La sua prima stagione NBA non inizia nel migliore dei modi, anzi non inizia affatto. Mancato accordo sui contratti, tra lega e Associazione dei Giocatori e conseguente lock out. Ci si ferma fino a febbraio. Alla partenza effettiva, proverà a rimestare nel torbido di una franchigia completamente da ricostruire, che non sembra avere a che fare con la dinastia sfavillante, tutta basata sull’efficacia di fondamentali pregiatissimi, che aveva segnato gli anni ottanta, creando il dualismo più cinematografico di sempre e spaccando il mondo, persino la pachidermica Europa, in tifosi di Bird contro idolatri di Magic. La generazione è cambiata, in mezzo c’è la “Jordan Era” e tutti i più giovani alla corte di Rick Pitino sono figli di quella rivoluzione giocata per aria.
Questa volta ci si rende conto che la strada non è da seguire, ma da costruire. E mancano dei pezzi. Non è solo un fatto di materie prime, il roster col tempo si potrebbe anche mettere in piedi, quello che non si può improvvisare è la presenza di leader riconosciuti come tali che traghettino la squadra verso il nuovo corso. Sarebbe toccato probabilmente a Len Bias ereditare il pesante testimone, oppure a Reggie Lewis che aveva fatto capire di poter diventare la versione moderna di un “Celtic”, ma le tre Parche non la pensavano alla stessa maniera, lasciandoci a immaginare cosa avrebbero potuto fare, senza trovare risposta a nessuno dei potenziali interrogativi.
“Conta fino ai titoli dei Lakers”, Paul Pierce e la notte delle 11 coltellate
E lo avrebbero fatto ancora se non fosse stato per una giacca di pelle e per la prontezza di un amico. Il Boston Theatre District è il posto ideale dove far serata e se sei un giocatore NBA, che si prenderà le chiavi della città, diventi bersaglio della fauna umana disposta a mettere da parte persino la dignità, pur di sedersi al tuo tavolo. Il Buzz Club offre a Paul e a Tony e Derrick Battie la giusta vetrina e la compagnia di signorine disinibite. Già dal loro ingresso la situazione sembra più tesa del solito e di lì a qualche minuto, complice il tasso alcolico in costante ascesa e le attenzioni dell’ape regina sbagliata, Paul Pierce si vede recapitare una bottiglia di whiskey sulla nuca. La rissa monta fino al punto che alcuni criminali locali tra i quali Billy Ragland e Trevor Watson si avventano su di lui e lo colpiscono con 11 coltellate tra faccia, collo, petto e schiena, arrivando a sfiorare polmoni e cuore. I colpi inferti vengono attutiti nella loro potenza omicida dalla giacca di pelle spessa che Paul indossa, regalo di Antoine Walker (genio si, ma anche druido dalla spiccata propensione al vaticinio). Derrick Battie che, come suo fratello Tony, non difetta in statura e forza fisica, trascina letteralmente l’amico fuori dal locale e vola al New England Medical Center. Ancora cosciente e trasferito immediatamente in sala operatoria, Pierce si ritrova affidato alle cure dell’anestesista che poggiandogli la mascherina sul viso lo esorta a compiere respiri profondi e a contare da uno a… quanti titoli hanno vinto i Lakers. Non sai mai dove si annidano i tifosi gialloviola! I medici diranno che per qualche istante era clinicamente morto, ma evidentemente non era arrivato il momento di formare un Big Three con Bias e Lewis, ma di tornare in campo sulla Terra e di costruirla per davvero quella strada che al momento era poco più di un sentiero sterrato e sconnesso.
In campo ci andrà fin da subito, già dalla prima partita in programma per la regular season e giocherà come “un uomo in missione” senza tentennare, senza pensarci su. Il suo stato d’animo è quello del prescelto, di colui che è chiamato a qualcosa di più grande di un semplice riconoscimento sportivo. E a dirla bene, come sempre, è Shaq. Il 13 marzo del 2001 i Celtics incontrano i Lakers che vinceranno il titolo, ma in quella partita P-Square ne mette 42 a referto e il Big Cactus intervistato nel post gara, commenterà: “Take this down. My name is Shaquille O’Neal and Paul Pierce is the motherfucking truth. Quote me on that and don’t take nothing out. I knew he could play, but I didn’t know he could play like this. Paul Pierce is The Truth.”
La verità è questa: non si tratta più di segnare il passo, di prendersi la squadra o di ricostruire, ma di condividere con la proprietà della franchigia un progetto che metta Boston dove è sempre stata, per meriti e non per diritto di nascita. L’arrivo di Doc Rivers alla guida tecnica è il punto di partenza ideale della strategia a breve e medio termine, ma le cose con Paul non decollano, anzi, si arenano per manifesta incompatibilità caratteriale. Il fatto è che se vuoi vincere non puoi farlo da solo, neanche se sei Michael o Kobe, devi fidarti dei compagni e dello staff, anche se sei stato abituato a tirare da solo tutte le carrette biancoverdi. Il fatto è anche, però, che se sei appena arrivato e fai passare il messaggio che ciò che è stato nell’immediato passato non conti o conti pochissimo, non sei Phil Jackson e inneschi il circolo vizioso del muro-contro-muro. Fortunatamente si tratta di due degli uomini più intelligenti e dalla più profonda esperienza di vita che il basket possa raccontare, e capiscono di poter essere l’ideatore e il realizzatore di un processo di costruzione, questo sì, della mentalità fondata sul lavoro e sulle vittorie del gruppo. Ora serve il gruppo. Danny Ainge si lascia convincere a imbastire una complicata serie di trattative e ad allungare il braccino di legno. Arrivano Garnett, Allen, Rondo e tutto quello che ne consegue, con la storia e gli annali che, appena provi a digitare The Big Thr…ti sparano la fotazza dei tre in maglia numeri 34-5-20. Non ce ne voglia Sam Cassell.
Alla fine tutti gli eroi romantici sono destinati a tornare a casa, magari più saggi, realizzati, senza troppa voglia di discutere, perché a parlare per loro sono le gesta compiute. È questo il caso? Si. Ma anche no. A Los Angeles Paul ci ritorna, per la sua ultima stagione, ma in maglia Clippers. Non per il blasone, ci mancherebbe, né per ambire a chissà quali titoli. La sola motivazione è ritrovare Doc Rivers che, come Scott Collins, gli ha insegnato a camminare guardando avanti. Magari i piedi a volte faranno fatica, inciamperanno, ma sarà la visione, lo sguardo verso l’obiettivo a dettare i movimenti, la cadenza dei passi. Dare fiducia a chi ha più esperienza non vuol dire snaturarsi o mitigare la forza che risiede nell’entusiasmo, ma potenziare il tutto con un boost fatto di consapevolezza e profondità di coscienza. A ben controllare, però il ritiro di Paul Anthony Pierce da giocatore professionista non è con la maglia dell’altra squadra di Los Angeles. In effetti per l’ultimo giorno di scuola chiede e ottiene di firmare un contratto con i Boston Celtics della durata di un giorno, appunto.
Vuole congedarsi tornando a casa, la sua. Quella della quale ha contribuito a rifare le fondamenta, i muri, il tetto, ma soprattutto la strada per arrivarci, da illuminare finche le ombre non spariscono.