Con una dichiarazione ufficiale del 10 febbraio, la NBA spera di aver chiuso l’ultima spinosa questione presentatasi relativa alla scelta del proprietario dei Dallas Mavericks, Mark Cuban, di non suonare l’inno americano, “The Star-Spangled Banner”, prima delle partite casalinghe della squadra texana.
La decisione da parte dei Mavs di non suonare l’inno era iniziata già dall’inizio della pre-season, ed è durata per tutte le prime 13 partite. La contro-tradizione è stata interrotta dalla nota ufficiale della Lega e pertanto, prima della palla a due tra i texani e gli Atlanta Hawks, è stato proposto un inno in versione strumentale. Come se fosse stato arrangiato all’ultimo minuto.
Perchè i Dallas Mavericks e Mark Cuban avevano preso questa decisione? In una sua dichiarazione ufficiale rilasciata a ESPN, sempre il 10 febbraio, Cuban afferma che l’inno non è stato suonato perchè: “siamo qui ad ascoltare le voci di chi sente che l’inno non lo rappresenti”.
La scelta, quindi, è stata dettata dalla politica aziendale di stretto dialogo con la comunità intrapresa dai texani, specialmente da quando nella posizione di CEO c’è Cynthia Marshall. Una scelta che ha trovato conferme anche nelle dichiarazioni di Jalen Brunson e Willie Cauley-Stein, due giocatori dei Mavs, chiaramente soddisfatti.
Se la questione pare ora apparentemente chiusa, in America c’è stato grande movimento a riguardo.
Dan Goeb Patrick, vicegovernatore del Texas, repubblicano, si è schierato da subito contro Cuban. Prima con un tweet in cui esortava il proprietario dei Mavs a vendere la franchigia, poi affermando di aver già presentato un disegno di legge che garantirà che l’inno nazionale venga suonato a tutti gli eventi che ricevono finanziamenti pubblici.
Anche ai piani più alti si è parlato della faccenda, con la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, che in un’intervista del 10 febbraio ha detto di non averne direttamente parlato con il Presidente Biden, ma immagina che quest’ultimo rispetti i motivi che hanno portato a questa protesta silenziosa.
Silenziosa è la parola chiave
Per capire la portata della faccenda, bisogna capire quanto sia importante l’inno per gli americani. Non ci dilunghiamo in tediose digressioni storiche, ma riassumiamo banalmente tutto: una nazione si identifica con due simboli, che sono la bandiera e l’inno.
L’America è uno delle nazioni più patriottiche del mondo, con una forte dipendenza alla formalità delle sue dimostrazioni. L’inno, per esempio, è suonato da sempre negli eventi sportivi professionistici (e nel campionato Nascar) e accompagna ogni evento pubblico di una certa importanza. I Dallas Mavericks sono la prima squadra professionistica a non aver suonato l’inno prima di una partita.
I simboli, però, possono diventare facilmente attaccabili.
E se sicuramente non stiamo parlando di Hendrix che a Woodstock stravolge l’inno in una mescolanza soffocante di suoni, scegliere di silenziarlo è un segnale estremamente forte. Sia perché la scelta viene da uno dei proprietari più influenti di tutto lo sport americano con non troppo velate ambizioni politiche. Sia perché, in un modo o nell’altro, arriva di nuovo dalla lega sportiva che più di tutte sta manifestando per le questioni sociali. E sia perché arriva nella nazione più patriottica del mondo, il Texas.
L’idea di Cuban non era quella di iniziare una rivolta o una qualche protesta, ma semplicemente di mettere in risalto alcune importanti questioni.
“La nostra speranza è che andando avanti le persone prenderanno la stessa passione che hanno per il problema dell’inno e applicheranno la stessa quantità di energia per ascoltare coloro che si sentono diversamente da loro”
Mark Cuban a ESPN
Tornando al simbolismo, non è un caso che Cuban abbia detto: “Non abbiamo cancellato l’inno americano. Abbiamo sempre la nostra bandiera, orgogliosamente posta sul muro dell’American Airlines Center”. Cuban cita subito la bandiera, dandole risalto. Così l’organizzazione Mavs vuole dire di essere fieramente americana, ma di non riconoscersi negli ideali che l’America di oggi sta passando. Gli ideali di una nazione sono racchiusi non nella loro bandiera, ma nell’inno.
Silenziosa, come la protesta
La notizia che i Mavs avessero smesso di suonare l’inno è stata rimbalzata dai principali media solo pochi giorni fa. Nessuno all’interno dei Mavs ha pubblicizzato la cosa e anche dopo che è venuta fuori, tutto il front office texano è stato restio a parlarne. Le proteste silenziose negli ultimi anni sono diventate sempre più presenti all’interno della società americana. Tra le più famose c’è, casualmente (?), un’altra protesta che coinvolge l’inno. Stiamo parlando di Colin Kaepernick e del suo inginocchiarsi. Un gesto dalle conseguenze enormi e una delle immagini sportive, americane e non, più intense degli ultimi anni.
Comunque sia, la protesta c’è stata e ha raggiunto il suo scopo, cioè mettere in luce il problema. Probabilmente la NBA non si è voluta lanciare verso una nuova ondata di polemiche, soprattutto ora che sono i primi mesi per il nuovo presidente Biden e quindi ha voluto agire in maniera un po’ più conservativa.
Ma il messaggio che Cuban e tutta l’organizzazione Mavs volevano lanciare è arrivato forte e chiaro.