Il 7 ottobre scorso, ad Abdulrazak Gurnah, scrittore naturalizzato britannico ma nato a Zanzibar, in Tanzania, viene assegnato il premio Nobel alla letteratura. Quinto africano della storia. La motivazione è la seguente: “per la sua intransigente e compassionevole penetrazione degli effetti del colonialismo e del destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti”.
È un premio importante, totalmente inaspettato (anche da lui stesso) e al contempo storico.
Non solo per i perché, ma anche per il fatto che Gurnah diventa Voce di un popolo, quello africano, che continua a chiedere il suo spazio nel mondo.
Alla notizia della vittoria di Gurnah, sono in tanti ad esultare ed essere entusiasti.
La comunità letteraria africana, in particolare, è al settimo cielo. E tra di loro, eccone un’altra, di Voce.
“Il Nobel torna a casa”, scrive in un suo messaggio Wole Soyinka.
Ma chi è Wole Soyinka?
Se abbiamo detto che Gurnah è il quinto africano ad essere insignito di questo premio, Soyinka è stato il primo, nel lontano 1986. E non possiamo non credere, visto che per essere un ispiratore devi essere ispirato da qualcuno, che quel qualcuno, per Gurnah, sia stato proprio Wole Soyinka.
Scrittore e drammaturgo nigeriano, Soyinka ha vissuto la “classica” vita complessa e travagliata, come solo potrebbe essere quella di un principe nero di quegli anni, costretto a battagliare situazioni complesse e, a volte, impossibili. La più importante, quella contro il regime dittatoriale nigeriano, una presenza onnipresente in quegli anni e responsabile di diverse guerre civili, tra tutte quella tra il 1967 ed il 1970.
Le sue armi? La penna e le parole, come può dimostrare ad esempio L’uomo è morto, libro scritto durante i suoi anni in prigione.
Perché stiamo parlando di Wole Soyinka, però.
Perché leggendo quello che scrive e conoscendo i suoi pensieri, ci si accorge che è come se ci fosse qualcosa di diverso, qualcosa che gli ha permesso di poter essere quel tipo di uomo così particolare. Se volessimo essere un po’ mitologici e forse anche mistici, potremmo provare a spiegare questa unicità con le sue origini: l’etnia Yoruba.
Chi sono gli Yoruba?
La definizione ci dice che è un gruppo etno-linguistico, oggi composto da quasi 40 milioni di persone sparse perlopiù in Nigeria, ma anche in paesi limitrofi. Un popolo che affonda le sue radici nella figura di Odùduwà, una divinità nelle cui caratteristiche possiamo trovare una sorta di sincretismo con la figura di Gesù Cristo. È da qui, quindi, che Soyinka ha trovato forza? Da queste origini?
Beh, è probabile, visto come le ha sempre portate con orgoglio in giro per il mondo, come le ha mostrate quando gli è stato chiesto di raccontare e raccontarsi, e come le ha fatte conoscere quando ha fatto sposare, nella letteratura, i grandi classici europei con la vitalità preponderante e trascendente dei suoi avi.
C’è un altro punto, però, da sottolineare. Che va al di là della importanza geografico/storica e che va al di là dell’accettazione dell’imponderabile dell’esistenza di cui gli Yoruba si fanno portatori.
Perché gli Yoruba vanno ricordati anche, se non soprattutto, per il loro lascito artistico (definito Itan, nella loro lingua). Un’influenza che riguarda musica, composizioni, scultura, teatro e danza contemporanea, in maniera delle volte insospettabile ma chiara, dovuta anche (e purtroppo) alle tratte schiaviste che hanno portato tantissime persone in ogni parte del mondo, in particolar modo in America.
Quindi, in conclusione, è molto probabile che sia tutte queste cose da cui Soyinka prende forma.
E come lui, sono tantissimi gli uomini e le personalità Yoruba sparse per il mondo che hanno qualcosa che solo chi discende dai principi africani può avere.
E una di queste è il protagonista della nostra storia.
Tutti lo conosciamo come Giannis Antetokounmpo, anche se il suo vero nome Yoruba è Adetokunbo, da adé: “corona/re” e òkunbọ: “arrivò/arrivato (dal) mare”.
Questa è la sua storia, scritta in 10 paragrafi.