Home NBA, National Basketball AssociationNBA Passion App Willis Reed, i Knicks e le Finals del 1970: l’emozione di una favola leggendaria nella Big Apple

Willis Reed, i Knicks e le Finals del 1970: l’emozione di una favola leggendaria nella Big Apple

di Marco Tarantino
Willis Reed vs Wilt

New York, la Big Apple, è una delle città più magiche al mondo, in grado di affascinare chiunque vi metta piede, indipendentemente dai suoi gusti. Questo fascino viene trasmesso da tutto ciò che la rappresenta, non ultime le squadre sportive. Tra le tante, tuttavia, ce n’è una che mantiene il suo fascino immortale. Penserete agli Yankees del baseball, certo; basta dare un occhio ai risultati.

Ma qui cadete in errore: è un’altro, infatti, il simbolo sportivo che meglio rappresenta la fibra e l’essenza dei newyorkesi, e allo stesso tempo attrae oltre ogni limite ogni amante del nostro sport, qualsiasi sia la propria collocazione geografica o la squadra per cui tifa; sono i Knickerbockers.

Sarà la città, sarà il Madison, sarà la magia che ne deriva, ma non esiste campione che non abbia dato tutto sé stesso contro i Knicks in casa loro, e forse anche per questo la sua formazione ha vinto poco in 60 anni di storia. Eppure c’è stato un momento in cui questo team ha fatto la voce grossa in NBA, when “the Knicks rule”.

Siamo tra la fine degli anni ’60 e gli inizi dei ’70, e il sistema NBA sta attraversando un momento delicato; la Lega si trovava a dover affrontare una crisi di pubblico ed entrate dovuto alla perdita di interesse causato, tra l’altro, dall’eccessivo dominio dei Celtics negli anni precedenti e dalla concorrenza dell’ABA, un’associazione molto meno vincolata alle regole (anche dal punto di vista fiscale se è vero che cesserà di esistere dopo solo 10 anni), più votata allo spettacolo, un simbolo della ribellione di quegli anni che stava attraendo sempre più giovani campioni e sponsor.

I Knicks, negli anni precedenti a quelli indicati, non avevano avuto una storia lusinghiera, con limitate partecipazioni ai playoff e pochi veri campioni da annoverare (Harry Gallatin e Dick McGuire, poi grande coach, su tutti), tant’è che spesso di loro, prima del periodo d’oro, ci si ricorda quasi esclusivamente per i 100 punti subiti da Chamberlain nel 1962.

Nel 1964 inizia la costruzione della squadra che ancora oggi i newyorkesi sognano e narrano ai nipoti: viene infatti selezionato al draft, con n. 8 al secondo giro, Willis Reed, centro di 206 cm dal profondo sud della Louisiana ancora foriera di razzismo dell’epoca. Si trattava di un giocatore che compensava l’assenza di centimetri con un gioco estremamente fisico, che lo rendeva efficace su entrambi i lati del campo ed in grado sin da subito di fare la differenza; venne, infatti, nominato Rookie of the Year nella stagione di esordio grazie a medie ci quasi 20 punti e 15 rimbalzi a partita.

Nonostante la nascita di una stella nel firmamento, la squadra era ancora una polveriera che faticava a decollare, anche in seguito all’ingaggio in quegli anni di un altro pivot old school come Walter Bellamy, che andrà a costituire con Reed il primo esperimento (in questo caso non andato a buon fine) di Twin Towers, poi ripreso dai Rockets negli anni ’80 a dagli Spurs a cavallo dei ’90 e 2000. I NYK non riusciranno a fare il salto di qualità che con l’arrivo, nel 1967, in aiuto di Reed di due figure chiave: William “Red” Holzman in panchina e la point guard Walt Frazier dal draft.

I Knicks iniziano a macinare vittorie in Regular Season, i playoff iniziano ad essere visti come una meta obbligatoria, il pubblico si affeziona sempre di più. Ad inizio della stagione 1968-69 avviene una significativa trade, che manda ai Pistons Walt Bellamy in cambio della polivalente ala Dave DeBusschere: la squadra è completa e ai nastri di partenza della stagione 1969-70 i Knicks vantano un gruppo di enorme talento, con un quintetto composto dal fantasioso e glaciale Frazier a dirigere, il tiratore Dick Barnett come guardia, l’ordinato Bill Bradley (ex Olimpia Milano e futuro senatore USA) in ala piccola, l’energico e versatile DeBusschere in ala forte ed il muro umano Reed al centro, con lo spumeggiante Cazzie Russell a dare manforte da sesto uomo.

La stagione regolare è un successo: 60-22 al termine condita da una striscia di 18 vittorie di fila. Reed viene nominato MVP della stagione, e assieme a Frazier e DeBusschere va a formare l’ossatura del All NBA Defensive Team oltre alla base per il quintetto dell’East all’All Star Game (dove a sua volta lo stesso sarà MVP), mentre Holzman riceve il premio di Coach of the Year.

Si arriva ai playoff e NYC inizia a crederci, ma l’impresa non è semplice come può sembrare e lo si vede sin dall’inizio; al primo turno (all’epoca si passava direttamente alle Conference SemiFinals) i nostri eroi se la devono vedere con la fresca corazzata dei Baltimore Bullets, che annoverano al loro interno due giovani di tutto rilievo: il massiccio ed esplosivo Wes Unseld (Rookie of the Year ed MVP del 1969), centro devastante nonostante i suoi 200 cm scarsi, nonché l’elegante Earl “The Pearl” Monroe, coadiuvati dagli esperti Gus Johnson e Kevin Loughery. La serie è tirata, fatta di continui botta e risposta (gara 1 finisce dopo 2OT), ma alla fine i Knicks la spuntano in gara 7  per 127 a 114  e approdano alle Conference Finals dove si trovano ad affrontare i Bucks del debuttante Ferdinand Lewis Alcindor Jr., futuro Kareem Abdul-Jabbar.

Alcindor sin da subito aveva dimostrato il suo potenziale dominio nella Lega, portando un team materasso come Milwaukee da 27 vittorie della stagione precedente alle 56 della stagione 1969-70, grazie ad una presenza intimidatoria in entrambi i lati del campo. Tuttavia, i Bucks potevano contare solo sul tale arma di lusso (Oscar Robertson arriverà l’anno successivo, stagione del loro unico titolo) e, grazie ad un lavoro difensivo impeccabile da parte di Reed sul futuro miglior marcatore della storia della Lega, i Knicks archiviano la pratica in 5 gare portandosi per la prima volta ad affrontare le Finals, dove troveranno l’armata dei Los Angeles Lakers.

I Lakers venivano dalla cocente sconfitta alle Finals dell’anno prima ad opera dei Celtics e vantavano la presenza in squadra di tre All Star, quali il regista Jerry “Mr. Clutch” West (MVP delle Finals del 1969 nonostante la sconfitta, unico caso nella storia NBA), l’ala Elgin Baylor e il centro più dominante dell’epoca, quel Wilt Chamberlain ora in fase calante, ma sempre in grado di offrire cifre attorno ai 30 punti e 20 rimbalzi. La stagione era stata contraddittoria, anche in ragione dell’infortunio di Chamberlain, che aveva saltato buona parte della stagione; malgrado ciò, si presentavano alle Finals dopo aver avuto la meglio con i Suns al primo turno in 7 gare ed aver liquidato Atlanta in 4.

Le Finals iniziano in un clima elettrico il 24 aprile 1970 davanti ad un Madison Square Garden completo in ogni ordine di posto e anche di più (siamo nel ’70 e la sicurezza spesso è un optional). New York vince la prima gara grazie a 37 punti di Reed che domina senza mezzi termini Chamberlain, tenuto a soli 17 punti. Gara 2 è di nuovo al Madison, ma stavolta sono i Lakers ad avere la meglio, a seguito ad una gara tirata conclusasi 105-103 grazie ad una prova monumentale di West con 34 punti e 66,7 % al tiro, che annullano la prova corale del quintetto newyorkese. Si va a Los Angeles e gara 3 mostra ancora il dominio di Reed, che con 38 punti e l’ennesima eccellente difesa su Chamberlain aiuta la squadra a portare a casa la vittoria per 111 a 108. Gara 4 finisce in mano ai Lakers, per merito di una prova superlativa dei Big Three, e in un eterno ping pong battagliero a cui la serie sembra essersi adeguata: 121-115 il risultato, in ogni gara nessun canestro viene regalato. Si torna ai NYC per gara 5, e anche qui il risultato è figlio di un’agguerrita tenzone (107-100), in favore dei Knicks che contano su un apporto rilevante di tutta la squadra, risultato anche di un grave stiramento muscolare alla coscia del nostro Willis Reed, che uscirà dal campo definitivamente all’intervallo, dopo aver provato senza successo a stare in campo, venendo costretto a saltare Game 6 a L.A., dove i Lakers si porteranno sul 3 a 3 grazie ai 45 punti e 27 rimbalzi di Chamberlain, libero di sfogarsi in assenza del predetto mastino, che nelle gare precedenti lo aveva limitato.

Si arriva a Gara 7, decisiva per il titolo, è l’8 maggio 1970 e il Madison è una culla di preoccupazione; Reed non è guarito e la sua presenza è messa in forte dubbio da tutti, tanto che i giornalisti danno già per assodato che non giocherà. Anni dopo il giocatore dirà di quell’episodio “I didn’t want to have to look at myself in the mirror 20 years later and say I wished I had tried to play”, ragion per la quale decide di sottoporsi a delle iniezioni di cortisonici per provare a scendere in campo. Inizia il riscaldamento e i giornalisti della ABC a bordo campo in diretta televisiva urlano al miracolo quando vedono la sagoma del pivot della Louisiana entrare sul parquet. Il pubblico newyorkese, notoriamente compassato, da vita ad una bolgia inverosimile che mostrò il significato rappresentato dalla figura di Reed, la cui sola presenza aveva iniettato una dose di coraggio e speranza nei tifosi e nei compagni di squadra.

La partita inizia, alla palla a due Reed non salta nemmeno e quando cammina sembra trascinarsi la gamba infortunata. La palla è dei Lakers che provano la prima sortita con Baylor che dalla lunetta fa un air ball; scatta il contropiede dei Knicks stoppato prontamente dagli avversari, ma ecco che arriva lo zoppo Reed che riceve palla sulla lunetta e con un tiro preciso insacca il primo canestro: il Madison emette un boato inverosimile che fa tremare persino le telecamere che riprendono la partita. Segue il primo canestro di Chamberlain, arrivato dopo che Reed, appoggiandosi letteralmente su di lui data l’impossibilità di saltare, segna dopo 4 errori. Dopo un tiro libero di Bradley e un nuovo errore dei Lakers scatta un nuovo contropiede dei Knicks, la palla circola e arriva sul lato destro al nostro eroe, che da 6 metri insacca un nuovo canestro con un Garden estasiato dal suo centro che con umiltà si rimette in difesa usando praticamente una gamba sola. Quei due canestri saranno gli unici nella gara di Reed, il quale starà in campo 27 minuti senza praticamente muoversi ma difendendo forte su Chamberlain (che in quella partita sarà disastroso dalla lunetta) ed instillando nei compagni il coraggio necessario per avere alla fine la meglio sugli avversari alla fine di una partita dal tasso tecnico stellare. La partita finirà 113 a 99 per i Knicks, anche grazie ad una prova monumentale di Walt Frazier che con 36 punti e 19 assist guiderà i compagni ad una vittoria che porterà il primo titolo NBA a NYC. Reed verrà nominato MVP delle Finals, concentrando su sé stesso i 3 titoli di MVP per quella stagione.

Quella squadra rappresenterà una delle squadre nobili di quel periodo, arrivando nuovamente alle Finals nel 1972 e nel 1973, prima perdendole e poi riappropriandosi del titolo, avendo sempre i Lakers come antagonisti; il tutto grazie ai senatori della squadra del 1970, ancora oggi osannato nella Big Apple, e ai nuovi inserimenti, su tutti il già citato Earl Monroe; ma il ricordo della stessa rimarrà incastonato nella storia dello sport per quell’incredibile gara 7 e per il coraggio dimostrato dal suo condottiero, che insegnò come il carisma e la fame di vittorie sono più rilevanti delle statistiche.

 

Per NBAPassion,
Alessio Biasatti

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