Pablo Laso è l’allenatore con più anzianità di servizio in Eurolega. Fu chiamato dalla dirigenza merengue nell’estate del 2011. Qualche mese prima il Real Madrid era tornato alle Final Four di Eurolega, da cui mancava dal 1996, ovvero la stagione successiva alla sua ultima Coppa dei Campioni conquistata.
Fu un viaggio travagliato. Ettore Messina si dimise dopo una pessima prestazione sciorinata della sua squadra nell’ultima partita di Top 16 contro la Mens Sana Siena di Simone Pianigiani. Non un fulmine a ciel sereno, ma l’ultimo atto di un matrimonio che aveva avuto diversi incidenti di percorso, dati soprattutto da un ambiente madrileno ondivago nella valutazione dei propri beniamini.
Emanuele Molin, vice di Messina, restò per traghettare la squadra fino al termine dell’annata. La sua ultima esperienza come capo allenatore era stata ventun anni prima a Treviso, eppure riuscì a mettere insieme i pezzi del puzzle. Superò non senza difficoltà il Valencia di Svetislav Pesic e approdò appunto all’ultima fase dopo quindici anni. L’ironia del destino volle che si giocasse al Palau Sant Jordi di Barcellona. I padroni di casa non c’erano, eliminati dai futuri campioni del Panathinaikos nei quarti di finale.
Ecco, dopo un’annata tanto strana, il Real diede il benvenuto a Pablo Laso. Basco, poco più che quarantenne, un passato da giocatore professionista (anche a Trieste), play con il record di assist e rubate nella Liga ACB, e quarto di sempre per minuti. Insomma, non un campione di quelli memorabili, ma comunque uno con un’esperienza che poteva contare, nella gestione di spogliatoio e ambiente.
Perché quello serviva, ai Blancos. Non era una mente geniale della tattica, come i due immediati predecessori Joan Plaza e, appunto, Ettore Messina. Non aveva trofei in bacheca, in quel momento: veniva da quattro anni a San Sebastiàn, che aveva guidato alla promozione nel 2008 e da un dodicesimo e due quattordicesimi posti.
Non il curriculum di un allenatore di prestigio, dunque, ma la dirigenza madrilena seppe vedere più in là, alle qualità umane del proprio nocchiero. Perché Laso è anzitutto un ottimo allenatore nella gestione delle partite. Ha un’aura paciosa, da Dalai Lama, trasmette tranquillità e quando perde la brocca lo fa scientificamente, per ottenere dai suoi uomini una determinata reazione.
Un coach dal sorriso luminoso e dalla filosofia semplice, ma non semplicistica. Un maestro della gestione, se è vero che il clinic della FIBA sul team building e sul team management è stato affidato a lui, che peraltro ha tenuto una vera e propria lectio magistralis su quella che è la gestione delle risorse umane nel coaching della pallacanestro.
A lui il Real Madrid si è affidato anno dopo anno, così da arrivare al decimo giro insieme, per rilanciare ancora una volta le proprie ambizioni. Come nella tradizione del Real Madrid Baloncesto (e a differenza di quella calcistica) non ci sono state roboanti campagne acquisti, ma inserimenti strategici per puntellare le partenze. Fuori Campazzo, Mickey, oltre ai prestiti dei giovani Tisma e Nakic, è tornato invece alla base Carlos Alocén, a cui si sono uniti Alberto Abalde e Alex Tyus, le uniche vere novità del roster merengue.
Sempre nel segno della continuità, dunque. A parte al sempiterno Reyes, infatti, il roster della Casa Blanca ha elementi che da tempo hanno messo radici nella capitale spagnolo: Carroll è arrivato in contemporanea al suo coach, Fernandez in pianta stabile l’anno seguente dopo una parentesi durante a serrata più recente, Taylor e Thompkins nel 2015, Randolph nel 2016, Causeur e Tavares nel 2017, Deck nel 2018. Primo e ultimo sono rispettivamente Llull, in maglia Real già dal 2007 e Laprovittola, dal 2019.
Naturalmente, anche Laso ha dovuto prendere le misure al nuovo ruolo che gli veniva richiesto. La prima finale di Eurolega è arrivata due anni dopo il suo approdo, ma ci sono volute due sconfitte contro Olympiakos e Maccabi Tel-Aviv prima di poter riportare, a due decenni di distanza dall’ultima volta, il massimo trofeo continentale a Madrid, per festeggiare, come da tradizione, nella fontana de Los Cibeles.
Si è ripetuto poi nel 2018, in contemporanea ai confratelli della sezione calcistica. Nel mezzo, altre due Final Four, appuntamento che Laso si è permesso di saltare solo nel suo primo anno e nel 2016: nel primo caso ha vinto la Coppa del Re, mentre nel secondo si è assicurato la doppietta su suolo nazionale.
Il suo Real è cresciuto nel tempo: all’inizio era una squadra che viveva e moriva del suo corri&tira, mentre via via ha saputo costruirsi anche un efficace gioco a metà campo. Oggi la sua forza si basa su un equilibrio tra i tiri dentro e fuori dall’area. Tyus e Tavares in area sono presenze dominanti, tanto come potenziali bersagli di passaggi quanto per i rimbalzi offensivi, che garantiscono seconde occasioni.
I due summenzionati sono attivati o coinvolgendoli nelle varie tipologie di pick&roll o con i giochi alto-basso, e la loro presenza si rivela fondamentale anche in post alto, per redistribuire palla in un accenno di Princeton Offence. È qui che molte volte, sul passaggio dentro-fuori che si innesca il tiro da tre con le uscite dai blocchi di Carroll o le conclusioni create dal palleggio da Llull o Causeur.
Naturalmente anche i giochi in penetrazione trovano un loro posto nel playbook, e ci sono quelli diretti verso il canestro (specialità di Deck e Causeur) dopo un pick&roll o quelli che portano allo scarico in esterno per il tiratore, con o senza extra-pass a seconda di quanti uomini ci siano in quel momento sul lato.
Non mancando di sottolineare l’apporto dato dal contropiede nell’economia del gioco complessivo, si può concludere che il Real ha un gioco molto basico, ma fruttuoso, soprattutto per l’alta velocità con cui viene eseguito. La domanda che sorge spontanea, come diceva Lubrano, è se ciò basterà per partecipare ancora una volta al ballo (a quattro di fine anno). Al momento squadre come Milano o Bayern hanno dimostrato di saper essere più continue in stagione regolare, ma la fame e il tremendismo dei Blancos, più abituati alle partite decisive, potrebbe essere un discriminante non di poco conto quando le sfide si faranno più calde.