Gli Anni ’80 sono quelli che hanno letteralmente salvato il basket NBA, portandolo dagli abissi della droga, della violenza e del totale disinteresse mediatico agli schermi di tutto il mondo. Vengono ricordati come gli anni delle epiche sfide tra i Los Angeles Lakers di Magic Johnson e i Boston Celtics di Larry Bird, ma anche come quelli del ‘passaggio di consegne’ tra ‘Doctor J’ Julius Erving e ‘His Airness’ Michael Jordan. Qualcuno, magari, citerà quel periodo ripensando all’ascesa dei Detroit Pistons versione ‘Bad Boys’, quelli di Isiah Thomas e Chuck Daly. Insomma, come spesso accade, nella memoria collettiva rimangono solo i vincenti. Il ‘decennio di plastica’, però, non è stato solo Magic, Larry, Michael e Julius. Nei ruggenti anni della fine della Guerra Fredda e di Nelson Mandela, ma anche di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, quelli del flipper e dei videogames, del boom hollywoodiano, di Madonna e Michael Jackson, del dualismo Duran Duran – Spandau Ballet e del Live Aid, i cuori degli appassionati di basket vennero scaldati da altri grandi giocatori. Magari non vincenti o popolari come quelli già citati, ma che hanno saputo ritagliarsi uno spazio importante in un periodo decisivo per l’evoluzione della pallacanestro. Questo pezzo è dedicato a loro, alle ‘star dimenticate’ degli Anni ’80. Si parte subito, per cui… Mamma, butta la pasta!
Walter Davis, Marques Johnson & World B. Free
Il nostro viaggio nella NBA degli Anni ’80 inizia con tre giocatori che avevano costruito la loro reputazione nel decennio precedente. Le carriere di Walter Davis e Marques Johnson percorsero binari paralleli fin dai tempi del college. Davis fu la grande stella di University Of North Carolina di Dean Smith. Il ‘santone’ dei Tar Heels lo allenò anche alle Olimpiadi del 1976, dove Team USA riscattò la beffa di Monaco vincendo l’ennesima medaglia d’oro. Davis era uno dei pochi a tenere testa a David Thompson, fenomeno di NC State, per il titolo di “giocatore più amato della Atlantic Coast Conference”. Le epiche sfide tra i due conquistarono anche un giovanissimo Michael Jordan, che stava per irrompere di prepotenza sulle scene. Con lo ‘Skywalker’, purtroppo, Davis ebbe in comune anche la passione proibita per la cocaina, che rovinerà la carriera di entrambi. Sull’altra costa americana, a UCLA, Marques Johnson aveva raccolto il testimone da Bill Walton come leader dei Bruins. Nel 1975 guidò la squadra al decimo e ultimo titolo NCAA dell’inimitabile carriera di coach John Wooden.
Davis e Johnson fecero il loro ingresso nella NBA tramite il draft 1977. Marques fu scelto con la terza chiamata dai Milwaukee Bucks, Walter due posizioni più in basso, dai Phoenix Suns. Per entrambi iniziò una carriera stellare, almeno sul piano individuale. ‘The Greyhound’ (uno dei molteplici soprannomi di Davis) disputò il primo dei suoi sei All-Star Game nella stagione di debutto, coronata con il premio di Rookie Of The Year, mentre Johnson lo raggiunse nel team della Western Conference (fino al 1980 Milwaukee fece parte dell’Ovest) un anno più tardi.
I due divennero giocatori di riferimento per le loro squadre, ma la ‘tirannia’ di Lakers, Celtics e Sixers non fece prigionieri. Milwaukee arrivò alle finali di Conference (stavolta la Eastern) sia nel 1983 che nel 1984, ma fu sempre sconfitta dai futuri campioni NBA (Philadelphia e Boston). Quella contro i Celtics fu l’ultima serie disputata da Johnson con la maglia dei Bucks, prima di fare ritorno nell’amata California. Tre stagioni negli sciagurati Los Angeles Clippers, poi un grave infortunio al collo, un’ultima, breve avventura (10 partite) con Golden State nel 1989 e un finale di carriera a Udine, con la maglia dell’allora Fantoni. Grazie a una felice intuizione di coach Don Nelson, Marques Johnson fu il principale precursore delle cosiddette ‘point forwards’, ovvero quelle ali capaci di impostare l’azione, lasciando le guardie libere di muoversi senza palla (gli esempi più recenti sono Giannis Antetokounmpo e Ben Simmons, per intenderci). Walter Davis guidò i Suns a otto partecipazioni consecutive ai playoff (con due finali di Conference). Nel 1978 furono sconfitti dai Bucks di Marques Johnson, poi divennero tra le vittime preferite dei Lakers versione ‘Showtime’. Nella seconda metà degli Anni ’80, la squadra fu investita dallo scandalo-cocaina. Davis accettò di collaborare con la giustizia nelle indagini, evitando così gravi conseguenze. La sua carriera ebbe un rapido epilogo tra Denver, Portland e, soprattutto, cliniche di riabilitazione. Parafrasando una delle canzoni più popolari del 1980, “Cocaine killed the NBA stars”…
Già, nel 1980 Davis e Johnson erano all’apice della carriera. In quello stesso anno, a fulminare le retine di tutta America (30.5 punti di media) c’era Lloyd Bernard Free. A differenza degli altri due, la fama di Lloyd non era dovuta ad una straordinaria carriera universitaria (frequentò il Guilford College, che gareggiava nella NAIA, ‘sorella minore’ della NCAA), bensì alle sue prodezze sui playground di Brooklyn. Il suo gioco spettacolare portò gli amici a soprannominarlo ‘All-World’, più semplicemente ‘World’ (la spiegazione – riassunta – è che nomignoli come All-City o simili non bastavano a descriverne il talento). Nel 1981 cambiò legalmente il suo nome in ‘World B. Free’. La sua carriera da professionista, però, si fermò a quell’irripetibile 1979/80 in maglia San Diego Clippers, che gli fruttò anche il primo e unico All-Star Game. Quei Clippers erano, come da tradizione, pessimi, e come loro gli Warriors, a cui si unì da scoring leader in carica. Leggermente meglio i Cleveland Cavaliers, con cui disputò gli ultimi playoff da protagonista (tre anni dopo fece solo una comparsata con i Rockets) nel 1985, ma di squadre vincenti nemmeno l’ombra. Free fu comunque una straordinaria arma offensiva; la memorabile stagione da 30.5 di media fu la seconda di nove consecutive oltre quota 22 a sera.
Micheal Ray Richardson
‘Sugar’ Ray Richardson è uno dei nomi in maiuscolo nella nutrita lista di ‘talenti bruciati’ della storia NBA.
Nato in Texas, cresciuto in Colorado e esploso definitivamente nel Montana, era sbarcato nel contesto più lontano possibile da quelli precedenti: New York City. I Knicks avevano scelto il giovane playmaker con la quarta chiamata assoluta al draft 1978. Due scelte prima di quella dei Boston Celtics, che selezionarono tale Larry Joe Bird. Niente di scandaloso, visto che Richardson era annunciato come ‘il nuovo Walt Frazier’. Effettivamente, l’avvio di carriera di Sugar Ray fu eccezionale. Dopo un anno da rookie così così, nella stagione 1979/80 esplose: 18 triple-doppie, leader NBA sia in assist che in recuperi e prima di quattro chiamate all’All-Star Game. Il Madison Square Garden cadde presto ai suoi piedi, intonando a gran voce “Sugar! Sugar!”. Oltre che nella storica arena cittadina, però, Michael Ray si ritagliò presto un ruolo da protagonista nella ‘vida loca’ newyorchese. Nei primi Anni ’80 la cocaina stava dilagando, e Sugar finì dritto nel vortice. Nel 1981 centrò la sua prima qualificazione ai playoff, ma i suoi modesti Knicks vennero eliminati al primo turno dagli altrettanto modesti Chicago Bulls. La stagione successiva, anche a causa di un Richardson incostante e sempre più condizionato dalla tossicodipendenza, New York chiuse al penultimo posto la Eastern Conference.
Serviva una svolta, perciò Micheal Ray fu ‘sacrificato’ nella trade che portò a Manhattan Bernard King. Decisiva fu la volontà del nuovo allenatore, Hubie Brown, piuttosto diffidente nei confronti delle abitudini extra-parquet del giocatore. Dopo una brevissima parentesi in maglia Warriors, fu rispedito nella Big Apple, sponda New Jersey Nets. In campo era il solito portento, e divenne subito uno dei leader della nuova squadra. Al primo turno dei playoff 1984 fu tra i protagonisti di un clamoroso ‘upset’ ai danni dei Sixers campioni in carica, firmando 24 punti nella decisiva gara-5. La Dama Bianca, però, prese il sopravvento. Richardson si perse in una continua e disperata caccia all’ultima dose. Coach Larry Brown (omonimo, ma non parente di Hubie), che aveva appena assistito al triste declino di David Thompson a Denver, provò ad aiutarlo tramite la riabilitazione. Quando il futuro allenatore dei Pistons lasciò definitivamente i Nets, però, per Sugar Ray fu la fine. Trovato positivo per tre volte ai test antidroga, fu bandito a vita dalla NBA. Trascorse un paio di stagioni nella USBL (lega professionistica minore americana) poi, nel 1988, attraversò l’oceano con direzione Bologna. Alla Virtus si vide all’opera il ‘solito’ Sugar Ray, nel bene e nel male. In campo era strabiliante: condusse le ‘V nere’ a due Coppe Italia e una Coppa delle Coppe, togliendosi anche lo sfizio di segnare 50 punti (record assoluto) all’All-Star Game 1990. Fuori dal parquet, il rapporto con la cocaina non finì mai. La Virtus lo lasciò andare nel 1991, poi, dopo una parentesi a Spalato, tornò in Italia per incantare Livorno. Fu poi la volta del campionato francese, quindi chiuse la carriera, ormai quarantaquattrenne, a Forlì. Un posto bellissimo, ma assai lontano dalle luci di Times Square…
Alex English
Mentre la maggior parte degli atleti analizzati fino a questo momento ebbe una carriera tormentata, Alex English è sicuramente uno di quelli che ce l’hanno fatta. Il cecchino da Columbia, South Carolina, fu il più grande realizzatore NBA degli Anni ’80. Oggi il suo numero 2 è appeso al soffitto del Pepsi center di Denver, casa di quei Nuggets che rese grandi, mentre il suo nome è marchiato a fuoco nella Basketball Hall Of Fame.
I Milwaukee Bucks lo selezionarono con la ventitreesima chiamata al draft 1976, ma dopo due stagioni pressoché anonime (chiuso dalla presenza di Marques Johnson, regalò qualche scintilla solo nei playoff del 1978) lo lasciarono andare senza problemi. Si accasò agli Indiana Pacers, impantanati nel difficile periodo che seguì il loro passaggio dalla ABA alla NBA. English riuscì a ritagliarsi un posto da titolare e a mostrare sprazzi di enorme talento realizzativo, ma la svolta arrivò solo a metà della stagione 1979/80. I Pacers lo spedirono a Denver nel corso di una trade che riportò a casa George McGinnis, grande protagonista dei giorni gloriosi in ABA.
Con la maglia dei Nuggets, Alex divenne un ospite fisso dell’All-Star Game, nonché un’inarrestabile macchina da canestri. Nelle nove stagioni disputate interamente a Denver tra il 1980 e il 1989, fece registrare una media di 26.3 punti a partita. Nella stagione 1982/83 fu capocannoniere NBA (28.4 a sera, al secondo posto finì il compagno Kiki Vandeweghe), mentre nel 1985/86 i suoi 29.8 a gara non bastarono per battere la concorrenza di Dominique Wilkins (30.3). Guidati da English, i Nuggets fecero presenza fissa ai playoff per tutti gli Anni ’80, diventando presto una delle squadre più prolifiche della lega. Il 13 dicembre 1983 vennero sconfitti (al terzo overtime) dai Detroit Pistons in quella passata alla storia come la partita NBA dal più alto punteggio di sempre: 186-184. Di quei 184 punti, 47 furono di English, mentre Vandeweghe ne mise a referto 51. Un mese dopo, l’11 gennaio 1984, uscirono vittoriosi da un 163-155 (quarta maggior combinazione di punti di sempre, stavolta senza overtime) contro i San Antonio Spurs. Anche in quel caso, a farla da padrone fu Vandeweghe (50), mentre Alex si accontentò di 25 punti. Con la cessione dell’ ‘ingombrante’ compagno, English divenne il leader assoluto della squadra, ma sulla sua strada trovò Magic Johnson e i suoi Lakers, che fermarono alle finali di Conference la corsa di Denver. Quei playoff del 1985, chiusi a 30.2 punti di media, furono il picco massimo della sua carriera. Lo ‘Showtime’ di Pat Riley dominò la scena per quasi tutti gli Anni ’80, e solo gli Houston Rockets di Ralph Sampson (1986) riuscirono a scalfirne l’egemonia ad Ovest.
Passati i giorni migliori senza alcun trionfo, i Nuggets optarono per una drastica rivoluzione, che partì con la rinuncia al loro uomo-simbolo (nonché leader all-time per punti, assist e partite disputate). Un Alex English in netto calo e piuttosto deluso dal trattamento ricevuto fece un’ultima fermata NBA a Dallas, come rinforzo ‘di prestigio’ per la panchina dei Mavs, poi seguì le orme di tante ‘vecchie glorie’ made in USA di quel periodo e approdò in Italia. Fece impazzire i tifosi di Napoli nella seconda metà della stagione 1991/92, sfiorando la promozione in Serie A1, poi appese definitivamente le scarpe al chiodo. Tornerà all’ombra del Vesuvio per conto del Dipartimento di Stato americano, in qualità di ambasciatore culturale.
Adrian Dantley
Cresciuto alla DeMatha High School (la stessa da cui usciranno Victor Oladipo e Markelle Fultz) ed esploso a Notre Dame (intesa come università americana, non come cattedrale parigina), Adrian Dantley ebbe una carriera professionistica segnata dalla ‘sindrome di Elgin Baylor’, ovvero il trovarsi nel posto giusto al momento sbagliato. All’inizio degli Anni ’80 era appena stato scambiato dai Los Angeles Lakers, che da quel momento in avanti dominarono incontrastati, mentre alla fine del decennio, inserito in un altro scambio, lasciò quei Detroit Pistons che si apprestavano a vincere il primo titolo dell’era ‘Bad Boys’.
A dire la verità, fu proprio l’addio a Los Angeles a dare una brusca accelerata alla sua carriera. Arrivò agli Utah Jazz dopo aver cambiato tre squadre in tre stagioni, nonostante il premio di Rookie Of The Year vinto nel 1977 con la maglia dei Buffalo Braves. A Salt Lake City, dove i Jazz avevano appena traslocato da New Orleans, Dantley si trasformò in un realizzatore con pochi pari. Chiuse quattro stagioni consecutive (1980/81-1983/84) oltre quota 30 punti di media, vincendo per due volte la classifica marcatori NBA. Sei volte All-Star, saltò l’evento solamente nel 1983, a causa di un grave infortunio al ginocchio. Nonostante la presenza di Dantley e di altri buonissimi giocatori (tra cui ‘Dr. Dunkenstein’ Darrell Griffith, recentemente omaggiato da Donovan Mitchell, e il centro Mark Eaton, difensore dell’anno nel 1985), Utah non riuscì a fare strada nei playoff; i Nuggets di Alex English e i Suns di Walter Davis ne frenarono più volte la corsa.
Se in campo i risultati rimasero mediocri, la dirigenza riuscì a piazzare due clamorosi colpi in sede di draft. Nel 1984 pescò il playmaker John Stockton con la sedicesima chiamata, l’anno successivo spese la tredicesima scelta per l’ala grande Karl Malone. Furono le mosse che gettarono le basi per una nuova era, quella più gloriosa nella storia della franchigia. L’epoca precedente ebbe ufficialmente fine nell’estate del 1986, quando la franchigia fu ad un passo dal trasferimento e i vecchi leader furono ceduti. Tra loro ci fu anche Dantley, che fu spedito ai Detroit Pistons.
Nella ‘MoTown’ il numero 45 (il suo storico 4 era già occupato da Joe Dumars) si trovò per la prima volta in un contesto vincente. Seppur da comprimario, nella squadra di Isiah Thomas, Dumars e Bill Laimbeer, riuscì a raggiungere le NBA Finals nel 1988. La serie fu combattutissima, ma alla fine – anche a causa di un infortunio di Thomas, la spuntarono i Lakers, che misero le mani sul secondo titolo consecutivo. Detroit si sarebbe riscattata l’anno successivo ma, ancora una volta, il salto di qualità comportò il ‘sacrificio’ di Adrian, scambiato a metà stagione con Mark Aguirre. Dantley ebbe un’ultima stagione ‘ruggente’ a Dallas, ma un nuovo infortunio ne compromise definitivamente la carriera. Giocò dieci partite nel 1991 con i Milwaukee Bucks, poi mosse gli ultimi passi…in Italia, e dove sennò? Sbarcò alla Aresium, la ‘seconda’ squadra di Milano, dove disputò una sola stagione (a quasi 27 punti di media) prima di smettere una volta per tutte. Nel 2007 la sua maglia numero 4 venne ritirata dagli Utah Jazz, l’anno dopo andò a far compagnia ad Alex English nella Basketball Hall Of Fame.
Sidney Moncrief
Anche il numero 4 dei Milwaukee Bucks, così come quello degli Utah Jazz, non potrà mai più essere utilizzato. Fu ritirato nel 2008 in onore di Sidney Moncrief, simbolo della franchigia negli Anni ’80. La guardia di Little Rock, Arkansas, era salita alla ribalta ai tempi del college; nel 1979 aveva sfiorato con i suoi Razorbacks l’impresa di escludere la Indiana State di Larry Bird dalle Final Four NCAA. Finì 73-71, con la tavola apparecchiata per il primo, storico incontro tra ‘Larry Legend’ e Magic Johnson, stella di Michigan State. Quell’anno, l’ ‘Uomo Magico’ fu la prima scelta assoluta di un draft che cambiò la storia NBA. Con la quinta chiamata, Moncrief venne ingaggiato dai Bucks, la squadra di Marques Johnson. Come abbiamo visto in precedenza, la corsa al successo di Milwaukee fini sempre contro i Boston Celtics del trio Bird-McHale-Parish o i Philadelphia 76ers di Julius Erving e Moses Malone. Sul piano individuale, però, ‘El Sid’ si rivelò uno dei migliori ‘two-way players’ degli Anni ’80. Fu il vincitore dei primi due Defensive Player Of The Year Awards di sempre (1983 e 1984). Nella prima occasione, venne anche inserito nel primo quintetto All-NBA (con l’illustre compagnia di Magic, Doctor J, Bird e Moses), oltre che nel primo quintetto difensivo. Sebbene gli toccasse spesso e volentieri l’incombenza di marcare i migliori attaccanti avversari, Moncrief trovò il modo per chiudere quattro stagioni consecutive oltre quota 20 punti di media. A descrivere al meglio la qualità del suo gioco fu Michael Jordan: “Quando giochi contro Moncrief, vivi una serata di basket a tutto tondo. Lui ti perseguita ovunque tu vada, su entrambi i lati del campo. Semplicemente, te lo aspetti.”
La carriera di Sidney fu frenata da problemi cronici alle ginocchia. Nella stagione 1986/87 dovette saltare 43 partite, a cui ne aggiunse altre 32 in quella successiva, tormentato anche da guai al collo. Il ritiro fu dunque inevitabile, anche se prima tentò un’ultima stagione con la maglia degli Atlanta Hawks (1990/91). Moncrief disse addio a Milwaukee come secondo miglior realizzatore della storia della franchigia (il primo inizialmente si chiamava Lew Alcindor), ma è soprattutto nel suo stato natale che divenne immortale; descritto da un giornale locale come “l’atleta più amato nella storia dell’Arkansas”, fu addirittura vicino a contendere a Bill Clinton il ruolo di Governatore.
Bernard King
Tra le grandi stelle degli Anni ’80 a non aver mai vinto un titolo NBA non poteva mancare lui, il Re di New York. La parabola di Bernard King è legata a doppio filo alla Big Apple. Nato a Brooklyn e cresciuto nei playground cittadini insieme al fratello Albert (anche lui futuro giocatore NBA, nonché Campione d’Italia con l’Olimpia Milano nel 1989), dopo tre anni di genio (sul parquet) e sregolatezza (fuori dal campo) a University of Tennessee debuttò in NBA in quelli che erano appena diventati i New Jersey Nets. Era il 1977, e la franchigia stava vivendo un periodo piuttosto traumatico. La fusione tra le due leghe aveva costretto le quattro reduci dalla ABA (Nets, Pacers, Spurs e Nuggets) a grossi sacrifici economici, tanto che i New York Nets dovettero privarsi del loro uomo-simbolo: Julius Erving. In un contesto giocoforza perdente, King riuscì a ritagliarsi un ruolo di primo piano; 24.2 punti e 9.5 rimbalzi di media nella stagione di debutto (superato dal solo Walter Davis nella corsa al Rookie Of The Year), 21.6 e 8.2 in quella successiva. Quel 1978/79 si chiuse con un’insperata partecipazione ai playoff, ma i Nets ritrovarono sulla loro strada il caro, vecchio ‘Doctor J’, che con i suoi Sixers si impose 2-0 al primo turno. All’indiscutibile grandezza sul terreno di gioco, però, Bernard contrapponeva una vita extra-parquet piuttosto tormentata. I suoi cronici problemi con l’alcol spinsero la dirigenza dei Nets a privarsi di lui, spedendolo agli Utah Jazz. Dopo sole 19 apparizioni e un’accusa di abusi sessuali, anche la nuova franchigia si liberò prontamente del giocatore, reindirizzandolo verso la Bay Area. Con la maglia numero 30 degli Warriors (che Stephen Curry indosserà per ultimo, prima che venga inevitabilmente ritirata in suo onore), King continuò a mettersi in luce, andando regolarmente oltre i venti punti a partita, ma le vittorie tardavano ad arrivare. Ecco dunque la trade che, nel 1982, portò Micheal Ray Richardson a Golden State e riportò il ‘figliol prodigo’ nella Grande Mela.
Finalmente ‘ripulito’ dagli eccessi passati, Bernard diventò presto ‘The King of New York’. Conquistò il Madison Square Garden a suon di prestazioni memorabili (tra cui due ‘cinquantelli’ consecutivi nel gennaio 1984), grazie alle quali riportò i Knicks ai playoff. Il 1984/85 fu la stagione in cui divenne leggenda, ma anche quella in cui la sua carriera subì il peggiore dei colpi. Chiuse la regular season a 32.9 punti di media, ma la notte da consegnare ai posteri fu il Christmas Game, quando fece un ‘regalino’ da 60 punti ai suoi vecchi Nets. Il 23 marzo 1985, sul finire di una partita tiratissima (anche grazie ai suoi 37 punti) contro i Kansas City Kings, si accasciò al suolo dopo aver tentato di stoppare Reggie Theus; ginocchio destro completamente distrutto (legamenti, cartilagine e osso) e carriera apparentemente finita.
King tornò in campo due anni più tardi, ma le sue condizioni non incoraggiarono i Knicks, che lo rilasciarono dopo sole sei partite. Quando tutto sembrava finito, ecco l’incredibile rinascita. Il ‘Re senza corona’ si accasò agli Washington Bullets, dove tornò a fare quello che faceva ai Nets: dominare individualmente in una squadra mediocre. Nella capitale tornò il prodigioso attaccante dei bei tempi, passando dai 17.9 punti di media del 1987/88 ai 28.4 (seconda migliore statistica in carriera) del 1990/91. In quest’ultima stagione ritrovò anche l’All-Star Game, a cui non partecipava da quell’impareggiabile 1985, e si tolse la soddisfazione di annichilire il pubblico del Garden con una prova da 49 punti e 11 rimbalzi, necessaria ai Bullets per sconfiggere i Knicks. La sua ‘seconda vita’ cestistica terminò di lì a poco, a causa di nuovi problemi al ginocchio. Restò ai box per un anno e mezzo, riapparve in maglia Nets (al fianco di Drazen Petrovic) per 32 partite e si ritirò ufficialmente nel 1993. Ebbe così fine una delle più gloriose e sfortunate carriere della storia NBA.
Ralph Sampson
Pochi giocatori, nella storia NBA, sono entrati nella lega accompagnati da aspettative superiori a quelle riposte in Ralph Sampson. Il colosso da Harrisonburg, Viginia, conquistò le luci dei riflettori già ai tempi dell’high school. Non solo per le sue impressionanti dimensioni (201 cm al liceo, ma crebbe fino a 224 cm), ma anche per le sue straordinarie doti su un campo da basket. Guidò la sua scuola a due titoli statali consecutivi (1978 e 1979), e chiuse la sua ultima stagione vicino ai 30 punti, 19 rimbalzi e 7 stoppate di media. I più prestigiosi college americani ingaggiarono una feroce battaglia per il suo reclutamento, ma alla fine Ralph decise di rimanere ‘a casa’, accordandosi con University Of Virginia. Con la maglia dei Cavaliers, Sampson divenne il terrore dei grandi team collegiali dell’epoca, dalla Georgetown di Patrick Ewing alla North Carolina di Michael Jordan. Con le difese avversarie concentrate prevalentemente sul loro centro, Virginia non riuscì mai a centrare l’obiettivo finale, ovvero il titolo NCAA. Riuscì ad arrivare alle Final Four solamente nel 1981, quando venne eliminata dai Tar Heels, ancora senza MJ.
L’esperienza universitaria di Sampson fu comunque memorabile. Il primo anno trascinò i suoi alla conquista del torneo NIT, mentre nelle tre stagioni successive fu eletto College National Player Of The Year. L’unico altro giocatore nella storia a vincere tre Naismith Awards consecutivi era (e rimane tuttora) Bill Walton, leggendario centro di UCLA.
Con un curriculum del genere, l’approdo di Ralph Sampson tra i professionisti fu atteso come quello di un giocatore epocale, che avrebbe ricalcato le orme dei vari Bill Russell e Wilt Chamberlain. Gli Houston Rockets si aggiudicarono la prima scelta assoluta al draft 1983, e non ebbero alcun dubbio nel selezionare il gigante da Virginia. Il numero 50 non fece pentire la dirigenza; chiuse a 21 punti e 11 rimbalzi di media un’eccellente stagione di debutto, che gli valse la convocazione all’All-Star Game e il premio di Rookie Of The Year. Le sue prestazioni non impedirono a Houston di finire un’altra regular season sul fondo della Western Conference. Poco male, visto che la ‘ricompensa’ fu Akeem Olajuwon (aggiungerà la “H” al suo nome nel 1991), attesissima prima scelta di quello che viene tuttora considerato come il draft più importante della storia della lega. La coppia formata da ‘The Dream’ e Sampson, due centri, fu presto ribattezzata ‘Twin Towers’ dai media, che inizialmente accolsero con un po’ di scetticismo questo inedito esperimento tattico. Furono zittiti da una stagione memorabile delle Due Torri; 20.6 punti e 11.9 rimbalzi a partita per il nigeriano, 22.1 e 10.4 per Ralph. Entrambi presero parte all’All-Star Game 1985, quello rimasto celebre per il ‘boicottaggio’ ai danni di Michael Jordan, e Sampson venne premiato come MVP dell’incontro. Il ritorno dei Rockets ai playoff fu un grande risultato, che però scomparve di fronte a ciò che successe la stagione seguente. Nel 1986 Houston vinse 51 partite e fece la parte del leone ai playoff. Prima spazzò via i Sacramento Kings, poi ebbe la meglio su Alex English e i suoi Nuggets in una tiratissima serie, quindi portò a termine una delle più grandi imprese degli Anni ’80 eliminando i Lakers dello ‘Showtime’. Avanti 3-1, i Rockets chiusero la serie al mitico Forum di Inglewood, grazie ad un incredibile canestro, in avvitamento, sulla sirena, di Sampson. Approdarono così alle loro seconde NBA Finals, dove ad attenderli c’erano gli altri grandi dominatori dell’epoca: i Boston Celtics. Se Olajuwon disputò una serie finale strepitosa, Ralph non fu altrettanto costante. Brillò solamente in una gara-3 da 24 punti e 22 rimbalzi, poi si rese protagonista di un’ingenua espulsione per una rissa con Jerry Sichting (185 cm), che lo aveva apertamente provocato. Boston chiuse i conti in gara-6 sospinta dalla tripla-doppia di Bird, che fu eletto MVP delle finali. Nonostante la sconfitta, il futuro di Sampson e dei giovani Rockets appariva estremamente radioso. Le loro ambizioni dovettero però fare i conti con un nemico comune a molti ‘what if…’ della storia sportiva: gli infortuni.
La cartilagine del ginocchio sinistro cominciò a dare problemi alla vigilia della regular season 1986/87, poi si ripresentarono a febbraio. Sampson preferì affrettare i tempi di recupero, e la decisione fu fatale. Quando ai dolori al ginocchio si aggiunsero quelli alla schiena, i Rockets si videro costretti a privarsi della loro ex-prima scelta. Ralph fu spedito ai Golden State Warriors, ma in due stagioni collezionò la miseria di 90 presenze, con cifre disastrose (6.4 punti e 5 rimbalzi nel 1988/89) per un giocatore del suo calibro. Fu scambiato nuovamente, stavolta con destinazione Sacramento, ma il suo fisico non era più in grado di sostenerlo. Dopo aver visto il campo 51 volte tra il 1989 e il 1991, quello che restava di Ralph Sampson si accasò agli Washington Bullets, ma fu tagliato dopo soli dieci incontri. Fu in quel momento che la storia cestistica di una grande promessa mai mantenuta conobbe il suo triste epilogo.
Dominique Wilkins
Gli Anni ’80 furono anche quelli in cui andò in scena ‘The Human Highlight Film’, ovvero l’esibizione acrobatica di uno dei più grandi schiacciatori di sempre. Dominique Wilkins nacque a Parigi, dove il padre, noto donnaiolo, era di servizio con l’esercito americano, ma crebbe nei sobborghi della pericolosissima Baltimore, in Maryland. Nei playground cittadini acquisì presto una certa nomea, tanto da arrivare a chiedere 20 dollari per ogni partecipazione ai vari pick-up games. Quando si trasferì a Washington, North Carolina (effettivamente gli americani non hanno una gran fantasia con i nomi…), fu chiaro a tutti che ‘Nique era in grado di schizzare al ferro come Julius Erving e David Thompson. Le partite della sua squadra liceale (che in tre stagioni perse un solo incontro) divennero presto un’attrazione locale, e la fama del numero 21 crebbe a dismisura. Fece particolarmente scalpore una sua performance da 48 punti (con 9 schiacciate), 27 rimbalzi e 8 stoppate che gli valse una menzione sul prestigioso mensile Sports Illustrated. Giocò per tre stagioni alla University of Georgia, poi si dichiarò eleggibile per il draft NBA del 1982. Gli Utah Jazz lo selezionarono con la terza chiamata assoluta, ma la scarsa propensione del giocatore al trasferimento nella terra dei Mormoni costrinsero la dirigenza a coinvolgerlo in una (fallimentare) trade con gli Atlanta Hawks.
Rimase dunque in Georgia, dove accese i riflettori su uno spettacolo indimenticabile. Una schiacciata dopo l’altra, rese gli Hawks, storicamente poco ‘appetibili’, una delle squadre più spettacolari della lega. Nella stagione 1984/85 conquistò il grande pubblico aggiudicandosi la vittoria in uno dei migliori Slam Dunk Contest di sempre, superando atleti del calibro di Julius Erving, Clyde Drexler, Darrell Griffith, Larry Nance e Michael Jordan, con quest’ultimo che avrà modo di ‘vendicarsi’ due anni dopo. L’edizione successiva della competizione fu invece vinta da Spud Webb, compagno di Wilkins ad Atlanta, malgrado i suoi 170 cm di altezza. L’esplosione di ‘The Human Highlight Film’ avvenne proprio in quel 1985/86; chiuse come miglior realizzatore NBA a 30.3 punti di media, guadagnò la prima convocazione all’All-Star Game e guidò gli Hawks fino al secondo turno playoff. Durante la corsa, mise a referto una prova da 57 punti contro i New Jersey Nets, La stagione successiva alzò ulteriormente l’asticella, sbattendo altri due ‘cinquantelli’ in faccia a Michael Jordan (che, da parte sua, ne mise 41) e a Larry Bird.
Nella seconda metà degli Anni ’80, Wilkins e Jordan duellarono sia nella gara delle schiacciate (MJ vinse nel 1987 e nel 1988, ‘Nique bissò quella del 1985 nel 1990), che per il titolo di top scorer. Nel 1988 i 30.7 a sera di Wilkins non bastarono per contrastare l’incredibile media di 35.0 fatta registrare da ‘His Airness’.
Se individualmente Wilkins poteva tenere testa ai mostri sacri NBA, a livello di squadra le cose cambiavano drasticamente. Gli Hawks non riuscirono mai, in quegli anni, a superare l’ostacolo del secondo turno playoff. I Boston Celtics e gli emergenti Detroit Pistons infransero di volta in volta i loro sogni di gloria. Nel 1988 Atlanta andò molto vicina all’impresa, ma l’epica gara-7 contro Boston, caratterizzata dallo stellare duello tra Bird e Wilkins (34 punti per il primo, 47 per il secondo), fu vinta dai biancoverdi all’ultimo tiro. Da lì in poi, un lento declino segnò la fine degli anni d’oro. La stella di Dominique brillò fino al gennaio 1992, quando la rottura del tendine d’Achille ne chiuse anzitempo la stagione. Quando tornò, le sue ottime prestazioni misero in seria difficoltà la dirigenza in vista dell’imminente rinnovo contrattuale. Per togliersi dall’imbarazzo, il front-office decise di scambiarlo con i Los Angeles Clippers prima della trade deadline 1994. Il giocatore-simbolo degli ultimi 12 anni della franchigia, la cui statua è oggi in bella mostra davanti alla Philips Arena, si ‘vendicò’ degli Hawks rifilando loro 36 punti e 10 rimbalzi al suo ritorno in città con la maglia dei Clippers.
Wilkins giocò un’altra stagione in NBA con i Celtics, ormai ben lontani da quelli che lo ‘tormentarono’ negli Anni ’80, poi fece le valigie per l’Europa. Trascinò il Panathinaikos alla conquista dell’Eurolega nel 1996 (con le Final Four disputate a Parigi, sua città natale), poi disputò le ultime due stagioni da super-veterano nella NBA con Spurs e Magic. Prima di trasferirsi in Florida, però, approdò a Bologna, sponda Fortitudo. Quell’esperienza, pur estremamente positiva, verrà ricordata soprattutto per il fallo a pochi secondi dalla fine su Sasha Danilovic, da cui nacque un gioco da quattro punti che di fatto regalò lo scudetto 1998 agli arcirivali della Virtus.
Joe Barry Carroll
Tra le ‘star dimenticate’ degli Anni ’80, è difficile trovare qualcuno con una storia più bizzarra di quella di Joe Barry Carroll. Nato in un posto chiamato Pine Bluff, in Arkansas, si trasferì a Denver, dove entrò nei radar NBA dominando a livello liceale. Nei quattro anni passati a Purdue University divenne il recordman ogni epoca per rimbalzi e stoppate, e trascinò i Boilermakers (curioso nomignolo affibbiato agli atleti dell’ateneo a fine Ottocento) a una finale NIT nel 1979 e a una Final Four NCAA l’anno dopo. Tutto ciò rese Carroll uno dei migliori prospetti del draft NBA 1980.
Inizialmente, la prima scelta assoluta era di proprietà dei Boston Celtics, ma il diabolico presidente biancoverde Red Auerbach (quello che nel 1956 aveva orchestrato un incredibile ‘magheggio’ per arrivare a Bill Russell) la cedette ai Golden State Warriors in cambio di Robert Parish e della terza chiamata, con cui venne poi selezionato Kevin McHale. Quella mossa (che ne ricorda un’altra più recente, vero?) verrà per sempre considerata un vero e proprio furto da parte di Auerbach; Parish, McHale e l’allora rookie Larry Bird formarono uno dei più grandi frontcourt della storia, mentre Carroll non raggiunse neanche lontanamente il loro livello. A discapito degli Warriors bisogna però ricordare che, all’epoca, Parish si avvicinava alla scadenza del contratto. Un eventuale rinnovo avrebbe comportato spese che la franchigia non avrebbe potuto sostenere, così si preferì rimpiazzare l’emergente ‘The Chief’ con un centro più giovane, di grande prospettiva e più ‘economico’ come JB. Quando Parish, tempo dopo, fu chiamato a commentare la trade, lasciò ai posteri una sentenza memorabile: “trasferirsi dagli Warriors ai Celtics è come passare dalla depandance all’attico”.
Dal canto suo, Carroll rispose a chi lo accusava di scarsa dedizione alla pallacanestro (qualcuno arrivò a ribattezzarlo ‘Joe Barely Cares’, ovvero ‘A Joe importa poco’, per l’atteggiamento apparentemente ‘svagato’) con una buonissima stagione da rookie. Grazie ai suoi 18.9 punti e 9.3 rimbalzi di media, fu incluso nel primo quintetto All-Rookie (il premio di matricola dell’anno lo vinse però McHale). Mantenne più o meno le stesse cifre l’anno seguente, ma la sua esplosione avvenne nel 1982/83, quando chiuse a 24.1 punti, 8.7 rimbalzi e 2 stoppate a partita e mise a referto una prestazione da 52 punti (5 marzo 1983) contro gli Utah Jazz. Era indubbiamente il giocatore di punta di una squadra orribile, in cui militarono anche ‘Sugar’ Ray Richardson e World B. Free, altri protagonisti del nostro viaggio. Nell’estate del 1984, JB entrò in aperto conflitto con la dirigenza riguardo ad alcuni aggiustamenti contrattuali. Le divergenze non si appianarono, così il centro si rese protagonista di una mossa senza precedenti: lasciò la NBA per giocare in Europa, come molti altri a quei tempi, ma lo fece all’apice della sua carriera. Arrivò nella grande Olimpia Milano, quella di Mike D’Antoni, di coach Dan Peterson e di Dino Meneghin, con cui Carroll formò una versione ‘nostrana’ delle Twin Towers. L’allora Simac vinse scudetto e Coppa Korac, poi JB, ancora di proprietà degli Warriors, rientrò alla base. La sua seconda parentesi nella Baia, due stagioni a 21.2 punti di media, lo portò a disputare sia il primo All-Star Game che i primi playoff in carriera, terminati al secondo turno per mano degli imbattibili Lakers, futuri campioni NBA. Quel magico 1987 fu il punto più alto delle parabole di squadra (almeno per quanto riguarda gli Anni ’80) e giocatore. A dicembre passò agli Houston Rockets nel corso dello scambio che portò a Oakland Ralph Sampson. La convivenza con Hakeem Olajuwon non diede i frutti sperati così, al termine della stagione, JB cambiò di nuovo aria. La sua stella si spense tra Nets, Nuggets e Suns. Nel 1991, a soli undici anni da quella criticatissima prima chiamata, annunciò il ritiro.
Mark Price, Brad Daugherty & Larry Nance
Sembrerà strano, ma i Cleveland Cavaliers vissero un momento di grande rilevanza (seppur non paragonabile a quello attuale) anche ben prima che arrivasse LeBron James. Il corso della fin lì non esaltante storia della franchigia cambiò drasticamente nell’estate del 1986, quando i Metallica avevano da poco pubblicato il capolavoro Master of Puppets e le Bangles stavano per travolgere l’industria discografica con il singolo Walk Like An Egyptian.
Il draft di quell’anno verrà ricordato per le scelte di Dennis Rodman, Drazen Petrovic e Arvydas Sabonis, ma anche per la tragedia di Len Bias, morto di overdose poche ore dopo essere stato selezionato dai Boston Celtics con la seconda chiamata assoluta. Prima di lui era stato draftato Brad Daugherty, talentuoso centro in uscita da North Carolina. A sceglierlo erano stati i Cavs, che di quel draft furono tra gli assoluti protagonisti. Con l’ottava chiamata selezionarono la guardia Ron Harper, che poi vincerà cinque titoli NBA con le maglie di Bulls e Lakers, e con la ventottesima Johnny Newman, ala piccola da Richmond, ma il vero ‘colpaccio’ fu lo scambio (concordato il giorno del draft) che portò in Ohio Mark Price, playmaker da Georgia Tech e venticinquesima scelta dei Dallas Mavericks.
Harper e Newman, ma soprattutto Price e Daugherty, divennero subito i giocatori di riferimento di una franchigia in piena rivoluzione. Insieme a loro arrivarono un nuovo general manager, Wayne Embry, e un nuovo allenatore, Lenny Wilkens. Il 1986 fu anche l’anno in cui debuttò John ‘Hot Rod’ Williams, altro elemento fondamentale del nuovo ciclo, reduce da una squalifica per uno scandalo-scommesse. Le ottime prestazioni di ‘Hot Rod’, Daugherty e Price valsero ai tre l’inclusione nel primo quintetto All-Rookie. Nelle due stagioni seguenti vennero aggiunti al roster gli ultimi due tasselli: Craig Ehlo, già finalista NBA con gli Houston Rockets delle ‘Twin Towers’, e Larry Nance, primo re delle schiacciate ai tempi dei Phoenix Suns. Con Price e Daugherty, il padre dell’attuale compagno di LBJ formò un trio di All-Star che portò Cleveland tra le big della Eastern Conference di fine Anni ’80.
Sulla strada verso il titolo, però, quei Cavs incontrarono il più grosso degli ostacoli. I Chicago Bulls di Michael Jordan li eliminarono al primo turno playoff sia nel 1988 che l’anno successivo, quello del leggendario ‘The Shot’ di MJ in faccia a Craig Ehlo. Nel 1990 furono i Sixers di Charles Barkley a fermare la truppa di coach Wilkens, la stagione seguente i gravi infortuni di Williams (piede) e Price (crociato, solo 16 incontri disputati). Quando lo squadrone tornò al gran completo (nel 1989 Ron Harper era stato rimpiazzato da un giovane Steve Kerr), tutto fu finalmente pronto per il grande salto. Cleveland pareggiò il miglior record di franchigia (57-25, come nel 1988/89), poi ai playoff si sbarazzò dei New Jersey Nets di Derrick Coleman e Drazen Petrovic e degli ultimi Boston Celtics targati Larry Bird. I Cavs approdarono alle finali di Conference per la seconda volta nella loro storia (la prima nel 1976, sconfitti da Boston), ma dovettero fare nuovamente i conti con il loro peggiore incubo. I Bulls, con Michael Jordan e Scottie Pippen al loro meglio e carichi in vista dell’imminente avventura con il Dream Team, si confermarono imbattibili. I due team si divisero equamente le prime quattro vittorie, poi i campioni in carica scalarono le marce e chiusero la pratica in gara-6. Quel 1992 fu il momento di massimo splendore dei Cavs pre-LeBron. L’anno successivo Chicago comparve troppo presto, eliminando Cleveland al secondo turno in una stagione che aveva visto il trio Price-Daugherty-Nance contemporaneamente in campo all’All-Star Game.
Fra i ‘Big Three’ di Wilkens, Mark Price fu la stella più luminosa; due volte vincitore della gara di tiro da tre punti, primo quintetto All-NBA (1992/93) e membro dell’esclusivo club 50-40-90 (le percentuali al tiro da due, da tre e dalla lunetta), lasciò i Cavs nel 1995 come leader all-time per assist e recuperi. Verrà poi superato in entrambe le categorie statistiche dal signor James. Lo stesso LeBron infrangerà, naturalmente, anche il record di punti di Brad Daugherty. Il centro dei grandi Cavs Anni ’80 fu costretto al ritiro, nel 1994, a causa dei continui problemi alla schiena. Dopo il basket si dedicò alla sua vera, grande passione: la NASCAR, da cui derivava anche il suo numero 43 (appartenuto a Richard Petty, grande campione di quella lega). Larry Nance, oltre a partecipare a tre All-Star Game, fu inserito nel primo quintetto difensivo nel 1989. Quando annunciò il ritiro, anche lui nel 1994, lo fece come il più grande stoppatore nella storia NBA tra i non-centri. I numeri delle grandi star di quei Cavs (il 25 di Price, il 43 di Daugherty e il 22 di Nance) oggi pendono dal soffitto della Quicken Loans Arena, attuale casa del più grande giocatore mai apparso in Ohio. Per l’ultimo dei tre è stata recentemente concessa un’eccezione, visto che è passato sulle spalle di Larry Nance Jr., unico possibile erede di ‘The High-Ayatolla Of Slamola’.
4 commenti
Grazie!
Bellissimo articolo, complimenti. Adoro leggere la storia del basket e articoli come questo non fanno altro che aggiungere lustro e fasto. Grazie.
Grazie mille paolo 🙂
Grazie!