Los Angeles Lakers, una franchigia, anzi molto di più: la storia di una squadra incredibile. El Pueblo de Nuestra Señora la Reina de los Ángeles del Rio de la Porciúncula de Asís aka Los Angeles, la città degli angeli e di Hollywood Babilonia. Un luogo stretto fra il deserto del Mojave e l’oceano Pacifico, un pezzo di mondo che può essere macabro come le storie di James Ellroy (che le ambienta proprio qui) o scintillante come il mondo dello showbiz. O maledettamente vincente come la sua principale franchigia di basket, i gialloviola Los Angeles Lakers: un’autentica istituzione conosciuta e venerata in tutto il mondo. E d’altronde non potrebbe che essere così, basti guardare l’albo della Lega per capirlo: 16 titoli NBA e 31 di Conference (le altre franchigie della West Conference sommando i loro titoli non superano i losangelini). Anelli, vittorie, titoli e giocatori epocali: benvenuti a L.A.
Los Angeles Lakers, prima della città degli angeli…
In principio la casa dei Lakers non era Los Angeles bensì Detroit, la motor city, niente sole, niente spiagge e nessuna celebrità courtside. Durarono un amen i Detroit Gems: esistettero solo nella stagione 1946-47 (record stagionale 4-40!) della NBL (National Basketball League, la progenitrice dell’attuale NBA) ed arrivarono ultimi nella Western Division. L’anno dopo la franchigia era a Minneapolis (Minnesota, stato ricco di laghi e ciò spiega l’origine del nome della squadra) nella Frost Belt, l’area più gelida degli Usa. Freddo glaciale ovunque tranne che nel Minneapolis Auditorium, catino da 10mila posti e casa della squadra. A Minneapolis infatti i Lakers vivono il loro primo sfavillante ciclo: in sei anni (1949-1954) la franchigia vince il titolo cinque volte (1949, 1950 ed il three-peat 1952-54). Erano gli anni di coach John Kundla, americano di prima generazione (i suoi genitori erano slovacchi austroungarici) nato a Star Junction, sputo di nemmeno mille anime in Pennsylvania, tutt’ora uno degli allenatori più vincenti della Lega (meglio di lui solo Phil Jackson e Red Auerbach), del leggendario centro George Mikan, occhialuto armadio a due ante (208 cm) dell’Illinois e prima grande stella della Lega, di Jim Pollard (unico assieme al coach e a Mikan presente nelle cinque annate vincenti), della fenomenale ala grande Vern Mikkelsen e del playmaker Slater Martin, che vincerà un titolo anche a St. Louis. Vittime sacrificali della prima grande dinastia NBA furono i Washington Capitols (1949) allenati da Auerbach (che esattamente dieci anni dopo si prese, alla guida dei Celtics, la sua rivincita su Kundla), due volte i Syracuse Nationals (1950 e 1954), due volte i Knicks (1952 e 1953). Da segnalare che in quattro occasioni i Lakers allenati da Kundla realizzarono il miglior record stagionale della Lega: 1949/50 (51-17), 1950/51 (44-24), 1952/53 (48-22), 1953/54 (46-26). John Kundla, nato nel 1916 e veterano della Seconda Guerra Mondiale, è morto nello scorso luglio ultracentenario a Minneapolis, dove aveva passato gran parte della propria esistenza. Dopo aver abbandonato l’Nba allenò Università del Minnesota e si attirò le antipatie di molti razzisti che non vedevano di buon occhio il fatto che allenasse giocatori afroamericani. George Mikan (morto ottantunenne in Arizona nel 2005) si ritirò nemmeno trentenne e succedette a coach Kundla alla guida della franchigia. È stato il primo grande giocatore dominante (in entrambe le fasi di gioco) della Lega ed infatti a causa del suo strapotere fisico l’area dei tre secondi venne allargata per limitarlo. Per tre anni (dal 1949 al 1951) è stato il miglior realizzatore della Lega, strepitoso il suo dato nel 1951: 1932 punti realizzati in 68 incontri, 28.4 di media (nella regular season appena conclusa, giusto per fare un raffronto, Harden, il miglior realizzatore, ha collezionato 2191 punti in 72 partite, 30.4 di media). Il californiano Jim Pollard, uno dei giocatori più tecnici ed atletici della sua epoca, è stato fra i primi schiacciatori della storia e per la sua elevata capacità di elevazione venne soprannominato Kangaroo Kid. Allenò i Lakers, senza grande fortuna, nella loro ultima stagione in Minnesota. È morto settantunenne nel 1993. Kundla, Mikan, Pollard, Mikkelsen e Martin sono stati insigniti nel Naismith Memorial Basketball Hall of Fame, Mikan è stato inserito anche fra i 50 migliori giocatori del cinquantenario della NBA.
Gli anni 60 dei Los Angeles Lakers
Se gli anni cinquanta per i Lakers furono una decade di gloria, gli anni sessanta furono forieri di rabbia e frustrazione, nonostante il trasferimento dal grigio Midwest alla ben più solare e vitale California e soprattutto nonostante la presenza in squadra di assoluti fenomeni, tre nomi sopra tutti: Jerry West (mister logo NBA), Elgin Baylor (11 volte all’All Star Game e 10 volte NBA First Team) e Wilt Chamberlain (uno dei primi dieci giocatori di sempre della Lega e probabilmente il più dominante). Ovviamente i Lakers non stettero a guardare nella più completa apatia le altre compagini della Lega arricchissi di titoli ed anelli, semplicemente sulla loro strada trovarono i più grandi Boston Celtics di sempre, quelli di Bill Russell, Bob Cousy, John Havlicek e coach Red Auerbach: un’autentica macchina di vittorie, incapace di concepire la sconfitta. Ed in questo senso vanno interpretate le numerose (sei: 1962, 1963, 1965, 1966, 1968, 1969) sconfitte patite dai Lakers nella Finals ad opera di Boston.
L’inizio della grande rivalità fra le due franchigie nasce in quegli anni ed è quantomeno ironico che quando i Lakers tornarono alla vittoria (anno di grazia 1972, realizzarono anche il miglior record della stagione: 69-13) fossero allenati da un discepolo di Auerbach, uno che da giocatore coi Celtics aveva vinto quattro anelli: Bill Sharman. Nei Lakers del 1972, oltre a West e a Chamberlain, si segnala la presenza nel roster di Pat Riley e di Jim McMillian (in Italia vincerà un titolo con la Virtus, squadra nella quale ha giocato anche Jan van Breda Kolff figlio di Butch, coach dei Lakers dal 1967 al 1969). Nel 1973 i Lakers ebbero la possibilità di ripetersi ma i Knicks si presero la rivincita, vincendo così il titolo un’altra volta (la prima nel 1970) contro i losangelini. Per rivedere i Lakers in finale tocca aspettare gli edonistici anni ottanta (gli anni della presidenza di Ronald Reagan, già Governatore della California). Il secondo grande ciclo della franchigia avviene infatti fra la stagione 1979-80 e quella 1990-91: 9 titoli di Divion, 5 titoli NBA (1980, 1982, 1985, 1987, 1988; nelle ultime due annate stabilirono anche i migliori record della Lega e cioè 65-17 nel 1988 e 62-20 nel 1988). Philadelphia e Boston (due volte) e Detroit gli avversari delle finali vincenti, curiosamente queste franchigie (ed i Bulls del 1991) batteranno i Lakers nelle finali perse durante questa fase storica, gli anni dello showtime. Due i giocatori simbolo di quegli anni gloriosi: Kareem Abdul-Jabbar (il miglior realizzatore di sempre della Lega) e Magic Johnson (fenomeno senza tempo scelto dai Lakers come prima scelta al Draft 1979) due assolute eccellenze mondiali della pallacanestro, ma meritano una citazione anche le ali piccole James Worthy e Michael Cooper, che chiuderà la sua carriera a Roma. Tre i coach responsabili della rinascita gialloviola: Paul Westhead (Nba 1980), Mike Dunleavy (West Conference 1991) e soprattutto Pat Riley (Nba 1982, 1985, 1987, 1988; West Conference: 1983, 1984, 1989).
Magic e Larry Bird rivalità sana tra Los Angeles Lakers e Boston Celtics
In quegli anni la rivalità con Boston si riaccese sia per i vari scontri fra le due formazioni nelle finals, sia per la rivalità (solo nel campo) fra Magic e Larry Bird, ennesima icona verde. Ma l’era Jordan era ormai alle porte e i Los Angeles Lakers, come tutte le altre franchigie della Lega si trovarono inermi innanzi lo strapotere mentale, fisico e atletico del #23 e per ammirare i Los Angeles Lakers protagonisti tocca aspettare che un ammiratore sconfinato di Jordan, l’allenatore di MJ a Chicago e l’erede di Mikan e Chamberlain, per quanto riguarda l’essere dominanti in campo, uniscano le loro forze. Kobe Bryant, Phil Jackson e Shaquille O’Neal, i loro nomi ed appare inutile sottolineare quanto questi personaggi siano stati delle vere e proprie celebrità della Lega e del basket in generale. Bryant e O’Neal si ritrovano a LA nell’estate del 1996, capiscono che insieme possono scrivere la storia della franchigia ma non sanno ancora come (nonostante la presenza di altri eccellenti giocatori nel roster, si pensi a Robert Horry o Rick Fox). Nelle prime due annate patiscono nei play-off due scoppole ad opera degli Utah Jazz successivamente secondi dietro agli enormi Bulls. Inutile l’arrivo nella stagione del lockout di Dennis Rodman. La quadratura del cerchio giungerà solo nell’estate del 2000 quando in California sbarca coach Zen Phil Jackson (che porta con sé da Chicago Ron Harper, altre new entry nel roster degne di menzione furono: John Salley, Brian Shaw, ex Roma, e A.C. Green di ritorno a L.A. dopo sei anni) che rende realmente possibile, anche se non eterna, la convivenza fra il Mamba e Shaq. Infatti arriva subito un three-peat (2000, 2001, 2002; nel 2000 stabilirono anche il miglior record della Lega: 67-15) che i Lakers non realizzavano dai tempi di Minneapolis: Indiana, Philadelphia e i Nets le vittime sacrificali nelle finali; Portland, Sacramento e i San Antonio di Popovich le franchigie più “malmenate” durante i play-off da Kobe e soci. Nel 2003 gli Spurs in semifinale di Conference impediscono il poker di vittorie. Jackson aggiunge così al roster due leoni onusti di gloria ma privi dell’anello: Gary Payton e Karl Malone ma in finale la spuntano i Detroit Pistons di Rasheed Wallace. Jackson intuisce che qualcosa si è definitivamente rotto fra i due assi della squadra e fa le valigie, proprio come Shaq che finisce a Miami a ricevere gli assist deliziosi di Jason Williams; per sostituirlo a Los Angeles torna l’ultimo Vlade Marlboro Man Divac.
In panchina coach Rudy Tomjanovich ma è un’illusione giacché nell’annata seguente torna Jackson ma c’è bisogno di tempo per ricostruire e crescere, infatti nelle prime due annate dopo il ritorno dell’allenatore ex Chicago i Los Angeles Lakers vengono eliminati dai Phoenix Suns di D’Antoni che stritola i losangelini col suo seven seconds or less. La storia torna a bussare in casa Los Angeles Lakers nella stagione 2007-08 quando Kobe&soci tornano alle finali. Ad attenderli, sai che novità, i Boston Celtics di Pierce, Garnett, Allen e Rondo: la serie finirà 4-2 per la franchigia del Massachusetts ma per i Los Angeles Lakers è solo la prima di tre finali consecutive. Le altre due vedranno i gialloviola vincere e trionfare rispettivamente sugli Orlando Magic (di Stan Van Gundy, del turco Hidayet Türkoğlu e dell’ex Tyronn Lue) e sui Celtics prendendo così nel 2010 la rivincita al termine di una serie tiratissima contro avversari che ai big four di cui sopra avevano aggiunto nel roster Nate “The Gadget” Robinson e Rasheed Wallace. Sono questi dei Los Angeles Lakers non più figli della diarchia Bryant-O’Neal ma, bensì, la corte di re Kobe che trova nello sloveno Saša Vujačić (ex Udine, attualmente a Torino) e nel catalano Pau Gasol i propri fedeli scudieri, ma meritano una citazione anche Lamar Odom, Walton figlio (attuale coach della squadra), Andrew Bynum e Derek Fischer (già con Kobe al tempo dei primi tre anelli). Ma il tempo, tiranno, waits for no one… Jackson dice addio alla squadra e alle panchine nel 2011, la franchigia lentamente si sfalda (servono a poco l’ingresso nel roster di un fenomeno come Steve Nash o il cavallo di ritorno Ron Artest aka Metta World Peace aka Panda’s friend), l’accesso ai play-off diventa una chimera, gli allenatori vanno e vengono senza lasciare tracce veramente importanti e Kobe Bryant nel 2016 dice addio alla palla a spicchi. Sembra l’inizio della fine…
Los Angeles Lakers, il corso di Luke Walton
… o forse è solo la fine di un ciclo glorioso ed il preambolo di una nuova fase. I Los Angeles Lakers di coach Walton sono un gruppo di “ragazzini” terribili pronti, forse, a spiccare il volo. La stagione appena conclusa li ha visti inizialmente in ambasce, tuttavia il loro 2018 è stato ben più che dignitoso, non a caso Magic, in versione presidenziale, nella conferenza stampa di fine stagione ha sostenuto che i suoi ragazzi avessero dimostrato il loro valore e che quindi i Lakers dovessero continuare il loro percorso di crescita. Non potrebbe essere altrimenti. Kyle Kuzma è stato uno dei migliori rookie dell’anno, Brandon Ingram ha sensibilmente migliorato le proprie percentuali e anche Lonzo Ball può sentirsi soddisfatto della propria stagione (vissuta comunque fra alti e bassi), infortuni e tiri a parte. Quindi da dove ripartire?
Sempre nella conferenza stampa di fine anno, Johnson ha accennato alla possibilità che i giovani virgulti possano venire affiancati da, parole sue, due fuoriclasse. È un dato di fatto che da almeno un anno Paul George sia accostato alla franchigia californiana. Ed è un altro dato che i Lakers abbiano parecchio spazio salariale libero. Qualcuno fantastica ed ipotizza citando LeBron James, il cui futuro nelle prossime settimane sarà dibattuto in ogni dove vi siano appassionati di pallacanestro. Ci sono buone possibilità, quindi, che il leit-motiv, o perlomeno uno, della prossima estate sia appunto George-James a L.A., un doppio arrivo che proietterebbe immediatamente i gialloviola fra le possibili candidate al titolo di fine anno, un sogno per i numerosi tifosi dei Lakers di tutto il mondo. Con la stagione ancora in corso, in realtà, le acque sono ancora calme. Non sarà più così a breve, a L.A. qualcuno culla, legittimamente, sogni di gloria.