Durante gli Anni ’80, grazie soprattutto alla rivalità tra Magic Johnson e Larry Bird e all’ascesa di Michael Jordan, la NBA aveva vissuto un periodo d’oro, ed era ormai pronta per diventare un fenomeno globale. La grande crescita della lega portò molte città a chiedere l’assegnazione di nuove franchigie, con gli ormai indubbi vantaggi economici che ne sarebbero conseguiti. Così, nel 1987, il grande commissioner David Stern acconsentì all’introduzione di quattro nuove squadre; l’anno successivo debuttarono Miami Heat e Charlotte Hornets, mentre nel 1989 fu la volta degli Orlando Magic e dei Timberwolves, che riportarono il basket nel Minnesota a quasi trent’anni dal trasferimento a Los Angeles dei grandi Lakers, dominatori assoluti della NBA del dopoguerra.
Così come accadde per i Magic, anche i neonati Minnesota T’Wolves (nome scelto tramite sondaggio popolare per via della massiccia presenza in Minnesota dei lupi delle Grandi Pianure) ebbero un inizio piuttosto faticoso, inanellando una serie di stagioni tanto disastrose sul piano dei risultati, quanto eccezionali dal punto di vista della presenza di pubblico. In occasione dell’ultima partita casalinga della stagione d’esordio furono addirittura in cinquantamila a riempire il Metrodome di Minneapolis!
Ciononostante, il freddo nord degli USA non rappresentava un mercato granché appetibile. Nel 1994 i proprietari della franchigia fecero domanda alla lega per un trasferimento a New Orleans, ma Stern e soci declinarono la proposta.
Nel giro di pochi mesi, la storia dei giovani T’Wolves sarebbe cambiata per sempre: era in arrivo ‘The Revolution’…
Dopo l’ennesima stagione perdente, caratterizzata tra l’altro dall’arrivo dell’ex stella dei Boston Celtics Kevin McHale nelle vesti di general manager, con la quinta chiamata al draft 1995 fu selezionato il primo giocatore a passare direttamente dalla high school alla NBA. Avrebbe indossato il numero 21; il suo nome era Kevin Garnett. L’arrivo della giovanissima star liceale, fresca di nomina ad MVP del McDonald’s All-American Game, coincise con una serie di manovre che rivoluzionarono la squadra. Per il ruolo di capo allenatore venne scelto Philip ‘Flip’ Saunders, vecchio compagno di squadra di McHale ai tempi della University Of Minnesota, mentre l’ex Dream Teamer Christian Laettner fu ceduto e rimpiazzato da Tom Gugliotta, che in maglia Wolves vivrà gli anni migliori della sua carriera. Nonostante le buone prestazioni di Garnett e Gugliotta, i Minnesota T’Wolves chiusero la stagione 1995/96 con l’ennesimo, misero record: 26 vitttorie e 56 sconfitte.
Il completamento della ‘rivoluzione’ avvenne nei mesi successivi. Al ricchissimo draft 1996 (quello di Iverson, Nash e Kobe) Minnesota selezionò Ray Allen, per poi spedirlo la sera stessa ai Milwaukee Bucks in cambio di un giovanissimo playmaker da Coney Island, New York, indicato da molti come la prossima, grande speranza del basket newyorchese: Stephon Marbury, conosciuto anche con il soprannome ‘Starbury’.Con l’arrivo della nuova stagione vennero introdotte delle nuove divise, ricordate ancora oggi come tra le più belle di sempre e destinate a segnare indelebilmente un’epoca.
Marbury, giocatore tanto difficile da gestire quanto talentuoso, divenne il motore perfetto per i Timberwolves i quali, grazie all’ulteriore crescita di Gugliotta e Garnett (entrambi convocati all’All Star Game) conquistarono per la prima volta nella loro storia l’accesso ai playoff.
Poco importò che contro gli Houston Rockets di Hakeem Olajuwon, Clyde Drexler e Charles Barkley non ci fu storia (3-0 al primo turno), con un Gugliotta così produttivo e con due giovani fenomeni come Marbury e Garnett, il futuro era tutto dalla parte dei giovani lupi.In particolare, KG stava mostrando al mondo delle doti mai viste per un giocatore della sua stazza (211 cm): oltre alle grandi qualità come rimbalzista, stoppatore e schiacciatore, l’arsenale offensivo del numero 21 era pressoché sconfinato: tiro da fuori, jumper dalla media distanza, eccezionale ball handling e una sensibilità fuori dal comune per il passaggio. In poche parole, Garnett rappresentava il prototipo del ‘lungo moderno’, però con 20 anni di anticipo rispetto ai vari Anthony Davis o Karl-Anthony Towns dei giorni nostri; non a caso, uno dei suoi soprannomi più celebri (oltre all’immortale ‘The Big Ticket’, vista la quantità di biglietti che faceva staccare all’ingresso del Target Center) sarà ‘The Revolution’.
Durante la stagione 1997/98 (in cui KG partì addirittura in quintetto alla partita delle stelle), il ‘Bigliettone’ e i suoi agenti negoziarono con la dirigenza un rinnovo contrattuale altrettanto ‘rivoluzionario’: ben 126 milioni di dollari in sei anni! Una cifra impensabile per l’epoca ed estremamente onerosa per la franchigia, che dovette però cedere per non perdere il suo straordinario leader.
Il sontuoso rinnovo di KG non andò particolarmente a genio alle altre due stelle della squadra. Dopo aver nuovamente contribuito al raggiungimento dei playoff (persi ancora al primo turno, stavolta contro i Seattle SuperSonics), Gugliotta pretese a sua volta un adeguamento d’ingaggio e, al rifiuto della dirigenza, chiese e ottenne la cessione. Lo seguì a ruota Marbury, che a metà della stagione breve del lockout fece le valigie per tornare vicino all’amata New York City e accasarsi ai New Jersey Nets.
Sebbene ‘Starbury’ venne sostituito da un buon giocatore come Terrell Brandon, la perdita di un ‘secondo violino’ come il numero 3 fu un durissimo colpo per i giovani Wolves, che riuscirono nuovamente ad arrivare ai playoff, per poi però essere spazzati via dai San Antonio Spurs, futuri campioni NBA. Dopo che al draft 1999 fu scelto Wally Szczerbiak, che diverrà nel giro di qualche anno un elemento chiave della squadra (tanto da arrivare all’All Star Game nel 2002), la franchigia attraversò un periodo piuttosto tormentato.
Poco dopo il termine dell’ennesima stagione conclusasi al primo turno (contro Portland), la guardia Malik Sealy morì, a soli 30 anni, in un incidente d’auto mentre rincasava dal compleanno di Kevin Garnett (il suo numero di maglia, il 2, verrà immediatamente ritirato dalla franchigia e verrà indossato da KG durante la breve esperienza con i Brooklyn Nets). Decisamente meno grave, ma pur condizionante in quel periodo, fu lo scandalo legato alle irregolarità nell’ingaggio del free-agent Joe Smith, che costò la squalifica di un anno a McHale e tutte le scelte al primo giro dei successivi cinque draft (due scelte verranno poi riassegnate ai T’Wolves).
Malgrado le difficoltà, i Timberwolves, grazie ad soprattutto ad un Garnett entrato ormai stabilmente nell’elite delle superstar NBA (nel 2003 verrà premiato come All Star Game MVP), raggiunsero la post-season anche negli anni successivi, senza tuttavia riuscire a superare l’ostacolo del primo turno. Intorno al fenomenale KG bisognava costruire una squadra di livello, per puntare in alto. Così, nell’estate del 2003, arrivarono in Minnesota due decisivi rinforzi: Sam Cassell e Latrell Sprewell.
‘Sam I Am’, già due volte campione NBA con i Rockets di Hakeem Olajuwon, aveva attraversato un periodo buio tra Phoenix, Dallas e New Jersey, prima di ‘rinascere’ ai Milwaukee Bucks insieme a Ray Allen e Glenn Robinson. Sprewell, detto ‘Spree’, era il classico esempio di giocatore tanto pieno di talento quanto problematico. Quattro volte All-Star ed elemento chiave prima dei Golden State Warriors, poi di quei New York Knicks capaci, nel 1999, di arrivare alle Finals partendo con l’ottava testa di serie (unico caso nella storia NBA), ‘Spree’ era salito agli ‘onori’ delle cronache per aver tentato di strangolare il coach dei Warriors, P.J. Carlesimo, in seguito ad una discussione.
E pensare che quell’episodio fu uno dei meno gravi della turbolenta vita del numero 8…
Ad ogni modo, l’arrivo dei due nel Minnesota fece decollare la squadra.
Guidati dai nuovi ‘big three’, i Timberwolves disputarono una stagione sensazionale, conclusa con il miglior record nella Western Conference. Uno straordinario Kevin Garnett si impose come MVP della regular season (dopo essere stato nominato ben quattro volte su sei Player Of The Month), coronando la sua inarrestabile ascesa.
Ai playoff, ‘Minnie’ ebbe la meglio sui Denver Nuggets del prodigioso rookie Carmelo Anthony, poi superò i Sacramento Kings (gli ultimi dell’era Greatest Show On Court) in una memorabile serie conclusasi con un’altrettanto memorabile gara-7 al Target Center.
Guadagnato per la prima volta l’accesso alle finali di Conference, i sogni dei migliori Wolves di sempre si infransero contro un muro troppo alto da scavalcare: i grandi Lakers di Phil Jackson, che all’impareggiabile coppia Kobe-Shaq avevano aggiunto due ‘leggende viventi’ come Gary Payton e Karl Malone. Contro la corazzata gialloviola, che avrebbe poi incredibilmente perso le NBA Finals contro i Detroit Pistons, non bastò nemmeno l’MVP: i Minnesota T’Wolves si arresero in sei partite. Dopo quella straordinaria stagione, i Minnesota T’Wolves si dimostrarono tanto forti quanto fragili; negli anni immediatamente successivi, la franchigia crollò a picco.
L’idillio fra Garnett, Cassell e Sprewell ebbe vita breve. KG era uno dei giocatori più pagati della lega (a ragione, verrebbe da dire) e passò poco tempo prima che gli altri due chiedessero a loro volta un adeguamento contrattuale. Sprewell, quando gli fu offerto un rinnovo da 21 milioni di dollari in tre anni, rifiutò indignato dichiarando: “Ho una famiglia da mantenere!”. La sua follia fece trattenere le altre franchigie dall’offrirgli un ingaggio, e ‘Spree’ si ritirò nel 2006.
Le pesanti tensioni interne influirono negativamente sulla stagione dei Wolves, che per la prima volta in nove anni non si qualificarono per i playoff. I cattivi risultati costarono il posto a coach Saunders, sostituito da Dwane Casey.
La squadra perse rapidamente un pezzo dopo l’altro; il primo a partire fu Cassell, poi fu la volta di Szczerbiak.
Nell’estate del 2007, dopo l’ennesima stagione senza post-season (a tutto il 2016, i Wolves non sono MAI PIU’ tornati ai playoff da quel lontano 2004), Kevin Garnett, ‘The Revolution’, il giocatore che aveva cambiato per sempre la storia della franchigia, lasciò i Minnesota T’Wolves. ‘The Big Ticket’ andò a scrivere una nuova, gloriosa pagina della sua leggenda a Boston, dove insieme a Ray Allen, Paul Pierce e Rajon Rondo vinse il diciassettesimo titolo della storia dei Celtics. I Timberwolves, invece, sprofondarono nei bassifondi della lega, da cui non usciranno nemmeno con l’esplosione delle nuove star Ricky Rubio e Kevin Love. Con la fine dell’era KG, scomparvero anche le fantastiche maglie di quegli anni ruggenti.
Le strade di Kevin Garnett e Flip Saunders si incrociarono di nuovo nel febbraio del 2015, quando un KG a fine carriera fece ritorno a Minneapolis, dove vent’anni prima tutto era cominciato. Pochi mesi più tardi, Saunders (nel frattempo tornato in panchina dopo essere stato GM della squadra) scomparve tragicamente a causa di un linfoma, portandosi via ciò che era rimasto dell’epoca d’oro dei giovani Minnesota T’Wolves.