Una volta, coach Jason Kidd richiamò in panchina Giannis Antetokounmpo, astro nascente dei suoi Milwaukee Bucks. Il ragazzo non la prese benissimo, tanto che, dopo la partita, pensò: “Vediamo un po’ cosa ha fatto questo tizio nella sua carriera, per permettersi di trattarmi così!”. Prese lo smartphone e fece un paio di veloci ricerche. Quando ebbe finito, il suo pensiero cambiò: “Gesù Cristo, come faccio a competere con tutto questo? Farò meglio a starmene zitto!”. Già, perché ‘The Greak Freak’ aveva appena scoperto che il suo allenatore è stato uno dei più grandi playmaker della storia. In questa edizione delle NBA Jersey Stories ripercorriamo la sua straordinaria carriera attraverso le maglie con cui ha incantato almeno due generazioni di appassionati NBA, dando vita ad uno spettacolo impossibile da dimenticare.
Diventare Jason Kidd: California Golden Bears (1992-94)

Jason Kidd al college
Nato a San Francisco e cresciuto ad Oakland, il giovane Jason Kidd fu spesso avversario di playground di un altro promettente ragazzo di quelle parti, tale Gary Payton. Dopo aver fatto le fortune della St. Joseph Notre Dame High School (Payton frequentò invece la Skyline HS), Jason scelse la University of California, Berkeley. In due stagioni con la maglia dei Golden Bears infranse un record dopo l’altro alle voci “assist” e “palle rubate”. Soprattutto, fece tornare rilevante un programma cestistico in crisi da tempo immemore; un’impresa che replicherà più avanti, a ben altri livelli, nel corso della carriera. I Bears parteciparono al torneo NCAA in entrambe le stagioni, anche se il loro viaggio più lungo si interruppe alle ‘Sweet 16’. Appena ventenne, Kidd mise in mostra un insieme di qualità da far invidia ai migliori professionisti. Oltre alla straordinaria visione di gioco e ad un fisico in grado di renderlo un fattore a rimbalzo, ciò che più colpiva del numero 5 era l’innata leadership, una dote che avrebbe fatto comodo a parecchie squadre NBA.
Dallas Mavericks (1994-96)
A tentare la (facile) scommessa furono i Dallas Mavericks, che scelsero Kidd con la seconda chiamata assoluta al mediocre draft del 1994 (solo ‘Big Dog’ Glenn Robinson, chiamato prima di lui, e Grant Hill, scelto subito dopo, diverranno stelle di prima grandezza). In Texas, Jason andò a formare il cosiddetto ‘Triple J Ranch’ con le prime scelte dei due draft precedenti: la guardia Jim Jackson e l’ala Jamal Mashburn. Il giovane trio avrebbe dovuto, secondo i piani, risollevare le sorti di una franchigia mai davvero protagonista, nei suoi quindici anni scarsi di NBA (gli unici ‘lampi’ erano arrivati negli Anni ’80 con Rolando Blackman, Mark Aguirre e Sam Perkins, ma nessuna stagione indimenticabile). I nuovi innesti mostrarono presto ciò di cui erano capaci; Jackson e Mashburn erano dei grandi realizzatori, ma i loro ripetuti infortuni compromisero le speranze di rinascita della franchigia, fuori dai playoff sia nel 1995 che nel 1996. Al contempo, Jason Kidd emerse come uno dei giocatori più promettenti della lega. Le doti già mostrate al college lo rendevano il ‘motore’ perfetto per la sua giovane squadra. Al suo primo anno da professionista fece più triple-doppie di chiunque altro nella lega (4 – sì, i tempi di Russell Westbrook erano lontani) e vinse il premio di Rookie Of The Year a pari merito con Grant Hill.
La seconda stagione vide un inatteso crollo. Con Mashburn fuori per infortunio e il lungo Roy Tarpley bandito a vita dalla NBA per ripetute violazioni dei programmi antidroga, i Mavs chiusero con il poco invidiabile record di 26 vinte – 56 perse. Kidd era ormai una stella, ma si rivelò anche un giocatore difficile da gestire. Prima entrò in conflitto con Jackson, accusato di eccessivo egoismo, poi non si disse particolarmente entusiasta del nuovo allenatore, Jim Cleamons. Dopo sole 18 partite dall’inizio della stagione 1996/97, JK fu spedito (insieme ai giovani Loren Meyer e Tony Dumas) ai Phoenix Suns, in cambio dei veterani Sam Cassell e A.C. Green e di Michael Finley, che diverrà il giocatore di riferimento dei texani negli anni a venire.
All Star Game 1996

Jason Kidd e Grant Hill All’ ASG 1996
Prima di lasciare la ‘Big D’, Kidd riuscì a raggiungere un grandissimo traguardo: solamente al secondo anno tra i professionisti, venne infatti selezionato per l’All Star Game di San Antonio. Non solo: Jason fu anche votato tra i titolari della partita delle stelle, battendo la concorrenza di fuoriclasse del calibro di John Stockton e del vecchio amico-rivale Gary Payton. Curiosamente, nel quintetto della Eastern Conference fu inserito Grant Hill, la cui carriera seguirà sempre un binario parallelo rispetto a quella di Jason. L’edizione del 1996, caratterizzata da maglie bianche e verde acqua (con tanto di peperoncino in bella vista) possibili solo in quei ‘coloratissimi’ anni, fu una delle più ricche di ‘starpower’ di sempre. Da una parte Kidd-Drexler-Kemp-Barkley-Olajuwon (con Payton-Stockton-Malone-Robinson-Mutombo tra le ‘riserve’), dall’altra Penny Hardaway-Jordan-Pippen-Hill-Shaq (più i vari Miller-Ewing-Mourning in uscita Jason Kidddalla panchina). La formazione dell’Est ebbe la meglio (129-118), e Michael Jordan fu premiato come MVP.
Jason Kidd-Phoenix Suns (1996-2001)

Kidd con la divisa anni ’90 dei Suns
Approdato in Arizona, Jason Kidd era pronto alla consacrazione. I Suns erano reduci dal doloroso addio del più grande giocatore della loro storia, Charles Barkley. Il nuovo allenatore Danny Ainge (attuale presidente dei Boston Celtics) si ritrovò a roster tre point guard di assoluto livello (oltre a Kidd c’erano infatti la star Kevin Johnson e il rookie Steve Nash) e tentò di giocare con un sistema che, anni dopo, verrà definito ‘small ball’. Con un quintetto spesso formato da Kidd, Nash e Johnson, più Rex Chapman e Antonio McDyess, i Suns divennero una delle squadre più spettacolari della lega, senza però andare mai oltre il secondo turno di playoff (l’etichetta di ‘belli ma perdenti’ rimarrà incollata alla squadra anche negli anni del ‘7 seconds or less’).
Con il ritiro di Kevin Johnson e la partenza di uno Steve Nash ancora acerbo, la squadra passò totalmente nelle mani di Kidd. Nella stagione 1998/99, il numero 32 (il 5 era stato ritirato in onore di Dick Van Arsdale) guidò la NBA per media assist (10.8) e triple-doppie (7) e fu inserito sia nel primo quintetto All-NBA, che in quello All-Defensive. Con l’aggiunta di Anfernee ‘Penny’ Hardaway, con il quale Kidd andò a formare il cosiddetto ‘Backcourt 2000’, i Suns puntavano a diventare finalmente una minaccia in chiave titolo. Dovettero però fare i conti con gli infortuni, che prima colpirono Jason (caviglia rotta, tornò a playoff in corso), poi si accanirono sull’ex stella degli Orlando Magic (la cui carriera naufragò presto, proprio a causa dei problemi fisici).
In campo, la stella di Jason Kidd brillava sempre più: ospite fisso agli All Star Game e inserito in tutti i primi quintetti All-NBA dal 1999 al 2002, era di fatto il miglior playmaker della lega. I guai arrivarono lontano dal parquet. Il rapporto con la moglie Joumana degenerò bruscamente, portando all’arresto per violenza domestica di Jason e all’obbligo di frequentare un corso di gestione della rabbia. La vicenda gettò una brutta ombra tanto sul giocatore quanto sulla squadra. Alla luce anche delle mancate vittorie (quelli erano pur sempre gli anni di Lakers e Spurs), la dirigenza decise di voltare pagina. Kidd fu scambiato con i New Jersey Nets insieme a Chris Dudley, in cambio di Stephon Marbury, Johnny Newman e Soumalia Samake. I Suns si preparavano ad una nuova era, Jason a conquistare per sempre l’immortalità cestistica.
Team USA (Sidney 2000)

Kidd con Team USA alle Olimpiadi di Sydney 2000
Kidd fece il suo debutto olimpico nell’estate del 2000, quando fu uno dei tre capitani (insieme ad Alonzo Mourning e Kevin Garnett) di Team USA. A differenza delle due passate edizioni dei Giochi (quando erano scesi in campo il ‘Dream Team’ e il ‘Dream Team 2.0’), la squadra americana non era composta dai migliori giocatori a disposizione. Niente Shaq, Kobe, Duncan o Iverson, dunque; oltre ai tre capitani, le punte di diamante del team si chiamavano Gary Payton, Ray Allen e Vince Carter. Quest’ultimo approfittò della manifestazione australiana per prendere confidenza con il futuro compagno Kidd (memorabili un paio di alzate del numero 5 per le inchiodate del numero 9) e per entrare nella leggenda. Nell’ultima partita del girone contro la Francia, Carter si avventò su una palla vagante, scavalcò il gigante avversario Frédéric Weis e si avventò sul ferro con quella che i media francesi ribattezzarono “le dunk de la mort”. Gli Stati Uniti vinsero la medaglia d’oro, ma non dominarono indisturbati come nelle precedenti edizioni. Con il livello degli avversari sempre più alto e l’approccio delle star americane sempre più superficiale, erano state gettate le basi per i ‘disastri’ del 2002 e del 2004 (anni in cui JK non fu della squadra per infortuni vari).
Jason Kidd: New Jersey Nets (2001-08)

Kidd ai New Jersey Nets con Kenyon Martin
L’arrivo di Jason Kidd ai New Jersey Nets segnò ufficialmente l’apertura del ‘Jason Kidd Flying Circus’. I Nets erano una squadra pressoché impresentabile, che non vedeva l’ombra di un trionfo fin dai tempi della ABA e di Julius Erving. Il playmaker californiano trasformò un’accozzaglia di giocatori senza arte né parte (con tutto il rispetto per Kerry Kittles e Keith Van Horn) in una delle formazioni più spettacolari della lega. Le ‘prelibatezze’ che partivano dalle mani di Kidd erano pane per i denti dei giovani e super-atletici compagni, da Kenyon Martin a Richard Jefferson. Soprattutto, Jason rese i Nets una squadra da titolo, o quantomeno una contender. Il 2001/02 fu la miglior stagione nella storia della franchigia, nonché la prima (ed unica, finora) con oltre 50 vittorie. Il record finale recitava 52-30. Quello dell’anno precedente? 26-56! Trascinati da un JK in versione MVP (arrivò dietro al solo Tim Duncan nelle votazioni), i Nets spazzarono via Pacers, Hornets e Celtics e approdarono per la prima volta alle NBA Finals. Ad accoglierli c’erano i Los Angeles Lakers del trio Phil Jackson – Shaquille O’Neal – Kobe Bryant, che li annientarono senza pietà (4-0).
La stagione successiva vide la partenza di Keith Van Horn in direzione Philadelphia, in cambio di un Dikembe Mutombo non più dominante come un tempo, ma ancora lontano dalla fine della carriera. Il connubio non fu felicissimo; il centro rimase ai box a lungo per un infortunio al polso, e a stagione conclusa il suo contratto venne rescisso. Con un Jason Kidd miglior assistman della lega e al suo massimo in carriera per media punti (18.7), i Nets riuscirono comunque a ripetersi. Stavolta le vittorie furono 49, e il primo posto ad Est del 2002 divenne il secondo nel 2003 (dietro agli emergenti Detroit Pistons). Dopo qualche difficoltà contro Milwaukee al primo turno, per New Jersey fu un percorso netto: 4-0 a Boston e 4-0 a Detroit. Per una delle peggiori squadre della storia NBA arrivarono le seconde finali consecutive. Al posto di Kobe & Shaq, gli uomini di coach Byron Scott si trovarono di fronte le ‘Twin Towers’ dei San Antonio Spurs: David Robinson (al passo d’addio) e il due volte MVP Tim Duncan. Come l’anno prima, il pronostico era totalmente sbilanciato in favore dei campioni della Western Conference. I Nets diedero comunque filo da torcere alla truppa di Gregg Popovich, vincendo gara-2 in Texas e gara-4 ad East Rutherford, la ‘casa’ dei Nets in quel momento (la loro storia è stata caratterizzata dai continui trasferimenti, in puro stile ABA) grazie ad un monumentale Kidd. Dall’altra parte, però, c’era un Tim Duncan all’apice della carriera. ‘The Big Fundamental’ dominò letteralmente la serie, chiudendola con una gara-6 in cui sfiorò la quadrupla-doppia (21 punti, 20 rimbalzi, 10 assist e 8 stoppate). Per gli sventurati Nets c’era ben poco da fare, gli Spurs portarono a casa il secondo titolo della loro storia.
In quel periodo si susseguivano le voci secondo cui Kidd (in scadenza di contratto) fosse in procinto di trasferirsi proprio a San Antonio, per prendere il posto in quintetto di un Tony Parker ancora in divenire. La dirigenza lo convinse a rimanere mettendo sotto contratto il grande Alonzo Mourning, compagno di JK a Sydney. Ad un solo mese dall’inizio della nuova stagione, però, l’ex centro dei Miami Heat fu costretto a ritirarsi per un grave problema ai reni, che lo portò ad un passo dalla morte (fu salvato dal trapianto dell’organo di un cugino). I Nets tornarono comunque ai playoff, ma stavolta i Pistons, lanciati verso il titolo, si presero la rivincita, eliminandoli al secondo turno.
Nell’estate del 2004 fu ceduto Kenyon Martin, ma approdò nel New Jersey Vince Carter, in uscita dai Toronto Raptors. Con Jason Kidd, Carter andò a formare quella che probabilmente è stata la coppia più spettacolare di sempre. In quegli anni, le partite dei Nets sembravano tratte da un videogame; alla minima distrazione avversaria, ecco una fulminea alzata di Jason per un taglio in back-door e una perentoria schiacciata di ‘Vincredible’. Seppur belli (anzi, splendidi) da vedere, i Nets non riuscirono più a tornare ai livelli delle doppie finali. Kidd era un giocatore di vertice della lega, ma la Eastern Conference era ormai controllata dai vari Pistons, Heat, Cavs e Celtics. Il suo ciclo ai Nets era destinato a concludersi, perciò ricominciarono le speculazioni su possibili trade. Dopo essere stato molto vicino ai Lakers (la trattativa saltò perché la famiglia Buss non volle privarsi di Andrew Bynum), Jason fece ritorno nella sua prima squadra NBA, i Dallas Mavericks, in uno scambio che coinvolse sette giocatori.
All Star Game 2008

Kidd e Ray Allen all’ ASG 2008
Il 17 febbraio 2008, mentre la trade veniva finalizzata, andò in scena l’All Star Game di New Orleans. Quell’occasione rappresentò un evento più unico che raro. Essendo stato votato in quintetto, Kidd vestì la maglia blu della Eastern Conference, anche se in realtà era già un giocatore dei Mavs, squadra della Western Conference. Il ‘cast’ della partita era di primissimo livello: ad Ovest Iverson-Bryant-Anthony-Duncan-Yao, ad Est Kidd-Wade-James-Bosh-Howard. Jason contribuì alla vittoria della (non) sua squadra (134-128), e l’MVP dell’incontro fu un LeBron James da 27 punti. L’edizione 2008 fu anche quella in cui Dwight Howard vinse la gara delle schiacciate travestito da Superman.
Team USA (Pechino 2008)

Kidd alle olimpiadi di Pechino 2008
Nell’estate del 2008, JK tornò a vestire la maglia della nazionale alle olimpiadi di Pechino. Dopo le cocenti delusioni del 2002 (eliminazione ai quarti nel Mondiale disputato in casa), del 2004 (medaglia di bronzo ad Atene) e del 2006 (altro bronzo ai Mondiali giapponesi), la USA Basketball assemblò un roster stellare, ribattezzato ‘Redeem Team’. Oltre a Kidd, coach Mike Krzyzewski ebbe a disposizione superstar del calibro di Kobe Bryant, LeBron James, Carmelo Anthony, Dwyane Wade, Chris Paul e Dwight Howard.
Stavolta nessuna sorpresa; Team USA asfaltò un avversario dopo l’altro (chiuse le cinque gare del girone con una differenza punti di +168) e riconquistò l’oro battendo la Spagna dei fratelli Gasol. La presenza di tante stelle all’apice della carriera relegò Kidd ad un ruolo marginale all’interno della squadra, ma gli consentì comunque di portarsi a casa la quinta medaglia d’oro (oltre a quella di Sydney erano arrivate quelle dei Campionati Americani 1999, 2003 e 2007) della sua carriera internazionale.
Jason Kidd-Dallas Mavericks (2008-12)

Finals 2011, Kidd è campione NBA
Ad un certo punto della sua carriera, Jason Kidd sembrava destinato a finire nella poco ambita lista dei “più grandi giocatori a non aver mai vinto un titolo”. Il ritorno a Dallas gli diede però l’occasione di allontanare gli ‘spettri’ dei vari John Stockton, Karl Malone e Charles Barkley e di dare un lieto fine alla sua storia cestistica. I Mavs erano una delle maggiori potenze nell’agguerrita Western Conference, ma non erano mai riusciti a fare l’ultimo passo. Ci erano andati molto vicino nel 2006, ma si erano fatti clamorosamente rimontare dai Miami Heat dopo esser stati in vantaggio per 2-0 nella serie finale. Per la prima volta in carriera, a Kidd (che scelse il numero 2, come la chiamata con cui i Mavs l’avevano scelto al draft del 1994) non fu chiesto di essere l’uomo-franchigia, bensì la principale ‘spalla’ di Dirk Nowitzki, fresco di nomina ad MVP della regular season (2006/2007). La stagione del ‘ritorno a casa’ di JK si concluse con l’eliminazione al primo turno di playoff, per mano dei New Orleans Hornets di Chris Paul. Coach Avery Johnson fu rimpiazzato da Rick Carlisle, l’uomo che porterà l’anello a Dallas.
Dopo altre delusioni nei playoff 2009 e 2010, Kidd sembrava vicino a lasciare nuovamente il Texas (si parlò a lungo di un interessamento dei New York Knicks). Decise infine di restare, e la direzione scelta si rivelò la migliore. La stagione 2010/11 iniziò con l’arrivo di Tyson Chandler dagli Charlotte Bobcats, che andò a completare un quintetto di ‘veterani in missione’. Oltre a Kidd, Nowitzki e Chandler, infatti, coach Carlisle poteva contare sulla fame di vittoria di Jason Terry (uno dei due sconfitti – con Nowitzki – delle Finals 2006) e Shawn Marion (che fu l’ala piccola titolare anche per via del grave infortunio di Caron Butler). Dalla panchina si alzavano altri giocatori di esperienza come Deshawn Stevenson, Peja Stojakovic e Ian Mahinmi. Jason si rivelò fondamentale soprattutto nei playoff quando, oltre ai compiti in fase di regia, si assunse anche l’onere di marcare i migliori giocatori avversari, da Kobe Bryant a Russell Westbrook. Sulla strada per le Finals, i Mavericks lasciarono il ‘cadavere’ dei campioni in carica Lakers, spazzati via in quattro partite. Superato anche l’ostacolo rappresentato dai giovani e rampanti Oklahoma City Thunder, arrivò la rivincita più attesa, quella contro i Miami Heat.
A onor del vero, la squadra della Florida era ben diversa da quella del 2006. Allo storico capitano Dwyane Wade si erano infatti uniti Chris Bosh e LeBron James, che avevano reso gli Heat la franchigia più odiata e temuta d’America. In svantaggio 2-1, i Mavs tirarono fuori tutto l’orgoglio e la determinazione di cui disponevano. Chandler e Terry disputarono una serie straordinaria, J.J. Barea fece perdere anni di vita al coach avversario, Erik Spoelstra, con delle prestazioni assolutamente impreviste, Kidd fu il solito metronomo e un leggendario Nowitzki fu eletto MVP delle Finals. Il 105-95 della sesta partita sancì il primo, storico titolo sia per i Mavs che per JK. A 38 anni abbondanti, il californiano fu il più vecchio playmaker titolare a sollevare il Larry O’Brien Trophy.
Insieme a ‘Giasone’ invecchiavano anche i Mavs, ormai appagati dall’indimenticabile trionfo. Nel 2012 furono spazzati via al primo turno dai Thunder di Kevin Durant, Russell Westbrook e James Harden, divenuti ormai una squadra da titolo. Kidd era sempre più vicino al ritiro, anche se sentiva di avere ancora qualche cartuccia da sparare.
All Star Game 2010

Kidd e Dirk Nowitzki all’ASG 2010
Nel 2010 Jason prese parte al suo ultimo All Star Game, il decimo in carriera. L’evento, curiosamente, si tenne proprio nella ‘sua’ Dallas, anche se la gara della domenica si giocò al Cowboys Stadium, nel sobborgo di Arlington. Kidd fu inserito tra le riserve della Western Conference, il cui quintetto era composto da Steve Nash, Kobe Bryant, Dirk Nowitzki, Amar’e Stoudemire e Tim Duncan. La partita fu vinta però dalla formazione dell’Ovest, che schierava Joe Johnson, Dwyane Wade (MVP dell’incontro), LeBron James, Kevin Garnett e Dwight Howard. A quella edizione dell’evento presero parte alcuni giovani playmaker (da Derrick Rose a Chris Paul – poi assente per infortunio –, da Rajon Rondo a Deron Williams) destinati a scalzare il ‘vecchio’ Kidd dal trono di miglior interprete del ruolo. Il ricambio generazionale era ormai cominciato.
Jason Kidd-New York Knicks (2012-13)

Kidd con i New York Knicks
Jason Kidd fu convinto a rimanere sul parquet dai New York Knicks, che lo ingaggiarono con l’idea di farne il mentore di Jeremy Lin, protagonista di un pazzesco exploit sul finire della stagione precedente (la cosiddetta ‘Linsanity’). Il playmaker di origine taiwanese, però, fu ceduto agli Houston Rockets, per cui JK giocò gran parte della stagione 2012/13 come guardia titolare, al fianco di Raymond Felton. L’11 dicembre 2012, Jason fece uno ‘scherzetto’ ai suoi cari, vecchi Nets (trasferitisi nel frattempo a Brooklyn) decidendo il ‘derby’ del Barclays Center con uno spettacolare gioco da quattro punti. La versione 2012/13 dei Knicks fu l’ultima veramente rispettabile di cui si ha memoria. Oltre che su Kidd e Felton (ancora in condizioni fisiche accettabili), coach Mike Woodson poteva contare sull’altro ex-Mavs Tyson Chandler, sui veterani Amar’e Stoudemire e Rasheed Wallace, sulle dinamiche guardie J.R. Smith e Iman Shumpert e su un Carmelo Anthony ancora nel suo ‘prime’. New York chiuse la regular season al secondo posto (dietro agli inarrivabili Heat dei ‘Big Three’), poi superò al primo turno di playoff i Boston Celtics, giunti ormai al capolinea dell’era Garnett-Pierce-Allen. La tiratissima serie persa contro gli Indiana Pacers (quella della memorabile stoppata di Roy Hibbert su Anthony) segnò il tramonto delle speranze dei Knicks e, allo stesso tempo, della carriera di uno dei più grandi playmaker di sempre. Jason annunciò il ritiro il 3 giugno 2013, a pochi giorni di distanza da quello del suo co-Rookie Of The Year nel 1995, Grant Hill. Il Jason Kidd Fying Circus serrò per sempre i battenti. Il suo ‘gestore’ chiuse al secondo posto assoluto nelle classifiche all-time di assist e palle rubate, in entrambi i casi dietro a John Stockton.
Jason Kidd-Brooklyn Nets (head coach – 2013-14)

Coach Kidd con Kevin Garnett e Paul Pierce
Una volta appesi scarpe e pantaloncini al chiodo, era chiaro a tutti come il rapporto tra Jason Kidd e la pallacanestro fosse destinato a continuare. Soprattutto dall’approdo ai Nets in poi, JK era il miglior esempio di ‘allenatore in campo’. Per questo motivo, solamente una settimana dopo il suo ritiro dal basket giocato, i nuovi Nets (quelli di Brooklyn) scelsero proprio lui per sostituire P.J. Carlesimo come capo-allenatore. L’idolo di casa (il cui numero 5 fu ritirato e innalzato al soffitto del Barclays Center) fece ritorno nella sua vecchia franchigia in un periodo cruciale, che ne avrebbe compromesso il futuro. Il 2013 fu infatti l’anno della sciagurata trade con i Boston Celtics che portò a Brooklyn Kevin Garnett, Paul Pierce e Jason Terry (ormai ben lontani dai tempi migliori), in cambio di tutte le prime scelte al draft fino al 2018. Se l’operazione si rivelerà disastrosa soprattutto nel medio termine, nell’immediato comportò un’enorme pressione su una squadra costruita (ma non certo realmente attrezzata) per vincere subito. Tutti i limiti di quel folle progetto emersero ai playoff. I Toronto Raptors furono battuti in sette gare, ma contro i Miami Heat di King James (destinati a vincere il secondo titolo consecutivo) non ci fu assolutamente partita. Seppur tra difficoltà di vario genere (in molti lo accusavano di non riuscire a gestire veterani di quel calibro), Kidd non sfigurò al suo debutto in panchina; fu infatti nominato Coach Of The Month sia a gennaio che a marzo. L’episodio che rimarrà più di ogni altro nella memoria collettiva, però, fu il grottesco ‘sketch’ orchestrato da Jason durante la partita contro i Lakers del 27 novembre 2013. Con il risultato in bilico e senza più timeout a disposizione, Kidd ordinò ad un suo giocatore (Tyshawn Taylor) di urtarlo, in modo da far rovesciare sul parquet la bibita che aveva in mano. Taylor eseguì, il gioco fu interrotto e Kidd poté disegnare lo schema per l’ultimo tiro (poi sbagliato, vinsero i Lakers). Il ‘trucchetto’ costò al vecchio Jason una multa da 50.000 dollari.
Jason Kidd-Milwaukee Bucks (head coach – 2014-2017)

Coach Kidd e Giannis Antetokounmpo
Ed eccoci tornati laddove la nostra storia era iniziata. Il rapporto tra i Nets e quello che fu il giocatore simbolo della loro storia in NBA si interruppe in modo piuttosto brusco. Kidd chiese alla dirigenza maggiore potere decisionale, ma il proprietario Mikhail Prokhorov e il GM Billy King si opposero. Ciò portò ad un rapido allontanamento tra le due parti, che sfociò in un’insolita trade; JK finì ai Milwaukee Bucks, in cambio di due seconde scelte future.
Per la franchigia del Wisconsin stava iniziando una nuova era. Nella stagione 2013/14 era stata la peggiore squadra della lega (15 vinte – 67 perse, record negativo di franchigia). Il pessimo risultato permise ai Bucks di ottenere la seconda scelta assoluta all’attesissimo draft 2014, con la quale fu selezionato Jabari Parker, talentuosa ala da Duke University. Il ragazzo di Chicago andò a formare una coppia dalle grandi speranze con l’unica nota lieta della stagione precedente: Giannis Antetokounmpo. Una volta venuto a conoscenza delle grandi imprese compiute dal suo allenatore in quasi vent’anni di carriera, ‘The Greek Freak’ si affidò completamente a lui, e i risultati arrivarono presto. In tre stagioni con Kidd in panchina, Milwaukee raggiunse la post-season in due occasioni. La più recente è quella del 2017, con Antetokounmpo nominato Most Improved Player Of The Year. Letteralmente ‘abbagliato’ dalle doti fuori dal comune del numero 34, Kidd pensò di trasformarlo gradualmente in ciò che abbiamo la fortuna di ammirare adesso: un playmaker di 211 centimetri capace sia di organizzare il gioco, che di schiacciare partendo da metà campo dopo un solo palleggio. Dovesse imparare dal suo maestro come rendere migliori i compagni e come innescarli con ‘visioni’ di kiddiana memoria, ci troveremmo di fronte ad un’arma totale, con tutte le potenzialità per far innamorare della pallacanestro le prossime generazioni. Esattamente quello che Jason Kidd ha fatto con la nostra…
Volete un ripasso delle sue giocate? Ecco Jason Kidd in tutto il suo splendore. un giocatore unico
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Floor General!!!