Dream Team, mai nessuna squadra potrà ripetere quel talento…
Le maglie di cui raccontiamo oggi furono consegnate alla Storia nell’estate del 1992, in occasione delle Olimpiadi di Barcellona, quando le divinità della NBA scesero tra gli esseri umani formando la più grande squadra di basket di tutti i tempi. Una squadra da sogno: il ‘Dream Team’.
Negli anni della Guerra Fredda, in cui USA e URSS cercavano di prevalere l’uno sull’altro in tutti i modi possibili (dagli ambiti più seri a quelli più ‘leggeri’ come lo sport), gli americani avevano subito una serie di smacchi inaccettabili per mano degli acerrimi rivali sovietici, proprio nel campo della ‘loro’ pallacanestro. Dapprima la controversa finale dei Giochi di Monaco nel 1972 che portò alla prima sconfitta statunitense da quando il basket era diventato sport olimpico, poi la disfatta di Seul 1988, quando l’URSS di Arvydas Sabonis si impose nettamente in semifinale.
Dopo l’ultima batosta a cinque cerchi, venne presa una decisione epocale: a partire dal 1992 gli atleti professionisti americani avrebbero potuto partecipare alle Olimpiadi. Fino ad allora, infatti, ad indossare la divisa del Team USA erano stati solo ragazzi provenienti dal college, i quali avevano comunque dominato in quasi tutte le competizioni.
Per vendicare le cocenti sconfitte degli anni precedenti, la USA Basketball decise di fare le cose in grande, portando in Spagna non solo atleti professionisti, ma i migliori cestisti del mondo, tutti in un’unica squadra.
Nacque così la leggenda di un team che andrà ben oltre il concetto di pallacanestro, diventando un fenomeno mediatico e culturale mai visto, né prima né dopo quella magica estate.
Per dare vita ad una grandissima squadra servivano dei grandissimi giocatori, e c’era un solo modo per convincere le più grandi superstar della NBA a partecipare al progetto: farli ‘reclutare’ da una delle stelle più luminose della lega americana.
Il primo giocatore ad essere interpellato, quindi, fu Earvin ‘Magic’ Johnson, il quale, con il solito entusiasmo, accettò di buon grado di far parte della squadra. L’Uomo Magico riuscì nell’impresa di strapare un ‘sì’ al grandissimo amico e rivale Larry Bird, nonostante quest’ultimo fosse vicino al ritiro, martoriato da gravi problemi alla schiena (problemi che costringevano ‘Larry Legend’ a sdraiarsi per terra ogni volta che veniva richiamato in panchina).
Non ci sarebbe stato un Dream Team, però, senza il più grande giocatore vivente.
Quando fu contattato, Michael Jordan (che in precedenza aveva gentilmente declinato l’invito) rispose che avrebbe accettato, ma a due condizioni: che in squadra ci fosse anche Scottie Pippen, con cui MJ aveva appena vinto il primo titolo della storia dei Chicago Bulls, e che invece venisse escluso Isiah Thomas, leader di quei ‘Bad Boys’ di Detroit che tanti ‘colpi proibiti’ avevano inferto a Michael in quegli anni.
Se per la prima questione non c’erano problemi, dato che Pippen era già uno dei più forti all-around players del pianeta, intorno a Thomas, i cui dissapori con Jordan risalivano addirittura all’All Star Game del lontano 1985 (in cui Isiah sembrò escludere volontariamente il giovane Mike dal gioco, per non fargli prendere le luci della ribalta), si scatenò un autentico caso. Anche Bird aveva avuto problemi con il fuoriclasse dei Detroit Pistons, che anni prima lo aveva definito “sopravvalutato poiché bianco”. In poche parole, erano in troppi a non voler giocare con Thomas.
Quando anche Magic Johnson, grande amico di Isiah, si convinse, la decisione fu ufficiale: la talentuosa point-guard dei Pistons non avrebbe preso l’aereo per Barcellona.
Ci sarebbe salito invece Michael, che con Larry e Magic sarebbe stato il capitano del già leggendario Dream Team.
Una volta ‘ingaggiati’ i tre padroni della NBA, la costruzione della squadra procedette rapidamente. Oltre a Pippen vennero inclusi i due migliori centri della lega, Patrick Ewing (New York Knicks) e David Robinson (San Antonio Spurs). A loro si aggiunse la straordinaria coppia degli Utah Jazz formata da Karl Malone e John Stockton, con quest’ultimo che di fatto ‘occupò’ (più che legittimamente, comunque) il posto lasciato libero dall’odiato Isiah.
A completare il nucleo dei primi dieci, ufficializzato nel settembre del 1991, due inarrestabili ‘macchine da punti’ come Charles Barkley (Philadelphia 76ers) e Chris Mullin (Golden State Warriors).
Alla guida della magnifica formazione fu nominato quel Chuck Daly che, con i Pistons del ‘grande escluso’ Isiah Thomas, aveva vinto due titoli NBA consecutivi (1989 e 1990). A completare il coaching staff P.J. Carlesimo, Lenny Wilkens e Mike Krzyzewski, colui che tra pochi mesi guiderà (per l’ultima volta) il Team USA ai Giochi di Rio 2016.
La marcia di avvicinamento al debutto del Dream Team fu sconvolta però da una drammatica notizia: il 7 novembre 1991 Magic Johnson annunciò al mondo di aver contratto il virus dell’HIV.
La scarsa conoscenza dell’epoca nei confronti di quella malattia fece temere, inizialmente, addirittura per la vita della star dei Los Angeles Lakers, che la sera stessa annunciò il ritiro dal basket giocato.
Fortunatamente, Magic si rivelò persino più forte fuori che dentro al campo e non solo rimase vivo e vegeto, ma tornò sul parquet per lo storico All Star Game del 1992. In seguito a quella gara, di cui fu nominato MVP, Johnson confermò la sua presenza tra i dodici di Barcellona.
Passata la paura, per la USA Basketball era arrivato il momento di completare la rosa. Ci volle ben poco per decidere il primo dei due nuovi innesti, visto che Clyde Drexler stava disputando una grandiosa stagione, coronata con il trofeo di MVP, che avrebbe portato i suoi Portland Trail Blazers ad un Michael Jordan di distanza dal titolo NBA.
Per l’ultimo posto disponibile, la commissione decise di puntare su un giocatore collegiale, come tributo alla storia della Nazionale americana.
A posteriori potrebbe sembrare incredibile il fatto che fu snobbato il talento più devastante di quell’annata, ovvero Shaquille O’Neal da Louisiana State University, ma colui che vene scelto, Christian Laettner, era reduce da due clamorose stagioni in cui aveva condotto Duke University a due titoli NCAA consecutivi. Durante le finali regionali contro Kentucky, poi, era stato protagonista di una delle più grandi prestazioni individuali della storia del college basketball: 31 punti (e un perfetto 10/10 al tiro) conditi dal canestro della vittoria sulla sirena. Un eroe, insomma…
I dodici ‘immortali’ si radunarono per la prima volta a La Jolla, California, per il training camp. Disputarono la prima partitella contro una selezione di atleti universitari e…furono sconfitti!
La formazione amatoriale, guidata da Chris Webber, Grant Hill e Bobby Hurley (che non riuscì mai ad avere successo in NBA, ma che in quell’occasione giocò come lo Steph Curry del 2016) inflisse una severa batosta agli ‘dei del basket’ (“They were killing us”, dirà poi Scottie Pippen). Quando, a fine partita, vennero aperte le porte ai media, il tabellone con il punteggio venne fatto azzerare in fretta e furia.
L’inatteso scivolone diede la scossa necessaria alla squadra, facendo capire alle capricciose superstar che avrebbero dovuto ‘rimboccarsi le maniche’ e mettere in campo il loro meglio, per evitare un’irrimediabile figuraccia.
Il giorno seguente venne organizzato un rematch. Jordan e compagni stavolta giocarono con gli ‘occhi della tigre’, distruggendo quei ragazzini, che comunque furono l’unica formazione nella storia a battere il Dream Team.
Una volta acquisita la giusta mentalità, i dodici fuoriclasse erano pronti a diventare una vera e propria squadra e ad affrontare la grande avventura olimpica.
Prima di partire per l’Europa, bisognava sbrigare la formalità del torneo di qualificazione ai Giochi, il cosiddetto Tournament Of The Americas, in programma a fine giugno a Portland. Ciò che successe nell’Oregon proiettò immediatamente il Dream Team nella leggenda. Non tanto per i risultati, più che mai fuori discussione (quando un giornalista chiese a Bird le sue impressioni su una partita, Larry rispose con una sincera risata), ma i memorabili episodi che fecero da contorno ad ogni gara.
Dal giocatore cubano che si fece scattare una foto da un compagno mentre marcava Magic in post basso a quello che si fece regalare le scarpe da Jordan, passando per la fantastica dichiarazione di un allenatore avversario dopo una colossale sconfitta (“Non puoi oscurare il sole con un dito…”) e arrivando all’argentino che, mentre tirava i liberi, realizzò di avere di fianco il suo grande idolo:
Charles Barkley, che probabilmente non ha mai rilasciato una dichiarazione banale in vita sua, commentò così la situazione:
“Gli avversari entravano in campo già sconfitti… Era assurdo! Facevano le foto con noi sapendo che gli avremmo fatto il culo!”
L’ultima tappa prima di iniziare l’avventura fu Montecarlo, dove la squadra passò una settimana di villeggiatura ‘spacciandola’ per un ritiro. Tra una partita di golf (con Jordan e Chuck Daly che divennero inseparabili, nonostante quest’ultimo fosse l’ideatore delle ‘Jordan Rules’), una cena con i reali monegaschi, un giro al casinò e un pomeriggio in spiaggia, ci fu spazio anche per la pallacanestro.
Il giorno dopo una delle varie esibizioni contro le altre nazionali, vinta non troppo brillantemente dagli USA, coach Daly decise di mettere alla prova la proverbiale competitività dei suoi giocatori. Primi tra tutti, ovviamente, Michael e Magic, che continuavano a stuzzicarsi (più o meno scherzosamente) su chi dei due fosse il vero ‘big dog’.
I due leader furono nominati capitani delle due squadre che si affrontarono in quella che venne definita “la più grande partita che nessuno vide mai”. Team Mike (Jordan, Pippen, Bird, Malone, Ewing) e Team Magic (Johnson, Mullin, Barkley, Robinson, Laettner – Stockton e Drexler erano infortunati) diedero vita ad una sfida dall’impareggiabile tasso agonistico, che vide in vantaggio i cinque di Jordan nel momento in cui Daly decise di interromperla per evitare spiacevoli guai fisici.
Il 24 luglio 1992, accolti da un entusiasmo incontenibile e da un massiccio dispiegamento di security, gli ‘extraterrestri’ sbarcarono a Barcellona.
La caratura e la fama dei membri della squadra fecero dei Dream Teamer i protagonisti assoluti di quell’edizione dei Giochi, assoggettandoli di conseguenza a particolari misure di sicurezza.
Durante la cerimonia di apertura i giocatori, con i loro vistosi cappelli bianchi, vennero fatti marciare al centro del gruppo di atleti americani, per non essere troppo esposti. Soprattutto, il Dream Team non alloggiò al villaggio olimpico, bensì in un lussuoso e blindatissimo hotel, gremito di agenti armati e perennemente assediato da fan in delirio, a caccia di foto e autografi. Il grande Chuck Daly dichiarò:
“Sembrava che fossero arrivati Elvis e i Beatles nello stesso momento”
Ogni spostamento dei giocatori doveva essere strettamente monitorato; nonostante ciò, alcuni giocatori si concessero qualche passeggiata per la splendida città catalana.
Charles Barkley divenne il vero ‘re di Barcellona’ quell’estate, battendo tutti i locali intorno alla Rambla circondato da persone adoranti. Quando gli venne chiesto se non avesse paura nel girovagare senza security, ‘Sir Charles’ alzò i pugni dicendo: “Questa è la mia security”.
Se Barkley era facilmente riconoscibile in mezzo alla gente comune, lo stesso non si poteva dire dello ‘smilzo’ John Stockton, che un giorno decise di percorrere a piedi, con famiglia al seguito, il celeberrimo viale. Il risultato?
https://www.youtube.com/watch?v=cHcoWtL1MjE
Se fuori dal campo gli episodi (veri o presunti) da raccontare sarebbero davvero troppi, dalle partite a carte in camera di Magic alle 36 buche a golf di Jordan prima delle gare, passando per la profonda amicizia che si creò tra il bianco dell’Indiana Larry Bird e il nero giamaicano Patrick Ewing, sul campo, invece, non ci fu proprio storia.
Il Dream Team livellò un avversario dopo l’altro, chiudendo il torneo con uno scarto medio di 43,8 punti.
L’unica avversaria che diede un minimo di fastidio fu la Croazia di Drazen Petrovic e Toni Kukoc, che gli Usa affrontarono sia durante il girone che in finale.
Kukoc, all’epoca giocatore della Benetton Treviso, era stato selezionato al draft NBA del 1990 dai Chicago Bulls di Jordan e Pippen. Dopo altri due anni passati in Europa, Toni sembrava in procinto di trasferirsi nell’Illinois, dove il general manager Jerry Krause lo attendeva a braccia aperte, decantandone continuamente il grande talento e preparando per lui un sontuoso contratto. Fin troppo sontuoso, visto che avrebbe guadagnato più dello stesso Pippen.
La questione Kukoc non andava per niente giù a Scottie e Michael, che prepararono per lui una spietata strategia difensiva atta a toglierlo completamente dal gioco. Magic Johnson ricorda:
“Poco prima di entrare in campo vidi Michael e Scottie con una faccia davvero cattiva. Guardavano Kukoc e si dicevano: ‘lo prendo io’, ‘no, lo prendo prima io’. L’unica cosa che mi venne da pensare fu: ‘oh-oh’!”
Il ‘trattamento speciale’ riservatogli dai due migliori difensori del pianeta ottenne i risultati sperati, e Toni chiuse l’incontro con soli 4 punti in 34 minuti. Andò leggermente meglio in finale, ma né i suoi 16 punti, né i 24 di Petrovic bastarono ai croati per frenare l’inesorabile corsa alla medaglia d’oro dei Dream Teamer.
Michael Jordan, come diversi altri compagni, si presentò sul podio con la tuta abbastanza aperta da nascondere il logo della Reebok (sponsor tecnico delle divise di rappresentanza americane), evitando così problemi con il suo storico brand (Nike). Per ulteriore sicurezza, si coprì la spalla con un’enorme bandiera a stelle e strisce. Puro patriottismo, no?
Nonostante questi ‘giochetti’ un po’ in contrasto con lo spirito olimpico e sebbene il trionfo non fosse mai stato in discussione, la premiazione e l’inno nazionale furono accolti con grande gioia ed entusiasmo da parte delle dodici superstar.
Molte di loro, come espresso anche durante l’introduzione della squadra nella Hall Of Fame (2010), considerano l’esperienza di Barcellona come la più grandiosa della loro carriera. Larry Bird ricorda così la premiazione:
“Penso che ricevere la medaglia e sentire le note di ‘The Star-Spangled Banner’ sia stata l’esperienza definitiva”
Al di là delle frasi fatte e dovute, l’estate del Dream Team cambiò per sempre la storia del basket, sia per i dodici ‘immortali’ che scesero in campo, sia, soprattutto, per coloro che ebbero la fortuna e il piacere di vederli giocare.
Per Michael Jordan, Charles Barkley, Karl Malone e compagni fu la prima e unica occasione per unire le forze e costruire insieme qualcosa di leggendario. Per Bird e Magic poi, fu la maniera migliore per chiudere le loro inimitabili carriere (anche se Johnson tornerà brevemente a calcare i parquet NBA qualche stagione più tardi). Dopo una vita da amici-rivali, un ultimo, epico trionfo l’uno accanto all’altro.
Il lascito più grande di quella mitica formazione, però, fu per coloro che in quell’estate del 1992 erano bambini, adolescenti, ragazzi. Quelli che il basket americano l’avevano, fino a quel momento, solamente potuto immaginare, sognare.
Il Dream Team ispirò un’intera generazione, quella generazione che avrebbe reso la pallacanestro, negli anni a venire, un fenomeno globale. La generazione da cui uscirono Dirk Nowitzki, Tony Parker, Manu Ginobili… Tutti giocatori nati e cresciuti lontano dagli Stati Uniti, ma che in America ci sarebbero arrivati per giocare – e vincere – da protagonisti, e che grazie a quella squadra leggendaria capirono che, a volte, i sogni diventano realtà.