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The Last Dance, uno sguardo nella mentalità di Michael Jordan

di Michele Gibin
jordan maglia the last dance

Dopo Clyde Drexler, i Bad Boys e Isiah Thomas e Charles Barkley, anche Gary Payton deve passare, a 24 anni di distanza, dalle “Forche Caudine” di Michael Jordan, che in The Last Dance dimostra di non aver perso una virgola del suo ardore competitivo e della sua voglia di primeggiare e ribadire la sua superiorità sui suoi avversari.

Nel 1996, sono i Seattle SuperSonics di Gary Payton, Shawn Kemp, Detlef Schrempf e Nate McMillan a tentare di opporsi ai Chicago Bulls del record (72-10 in regular season), di Jordan e Pippen e dei rinforzi Dennis Rodman, Toni Kukoc e Steve Kerr. Le reazioni di Michael Jordan ed i suoi ricordi dell’epoca, sapientemente distribuiti dalla regia di Jason Hehir, sono uno sguardo inedito, soprattutto per il pubblico più giovane, alla mentalità vincente, determinata e ossessiva dell’ex superstar dei Bulls, un tratto caratteriale di cui Jordan è sempre andato fiero, del resto.

La mia mentalità? Andare là fuori e vincere, costi quel che costi“, così Jordan negli ultimi episodi di The Last Dance “E se tu non vuoi vivere seguendo questo regime di pensiero, allora non sei nel posto giusto di fianco a me perché io ti ridicolizzerò finché non mi dimostrerai che sei a quel livello. E se non ci arrivi, beh, per te sarà un inferno“.

Giustificate alla luce di tale modo di intendere vita e sport, tutte le reazioni anche estreme dell’atleta Michael Jordan trovano senso. “Vincere ha un suo prezzo, e la leadership ha un suo prezzo“, spiega MJ “Ho sempre spinto su persone che non volevano essere spinte, ho sempre sfidato persone che non volevano essere sfidate, e mi sono guadagnato questo diritto perché i miei compagni non avevano passato quello che ho passato io. Quando arrivavi ai Bulls, c’era uno standard da raggiungere, e non avrei accettato nulla di meno“.

Un po’ Steve Jobs, un po’ Napoleone Bonaparte, un po’ Daniel Plainview che beve l’altrui frullato, l’atleta Michael Jordan ha sempre dimostrato però di saper vivere ben al di sopra di tale standard, mettendosi in una posizione di leadership incontrastata in quei Chicago Bulls da lui trasformati in una corazzata. “Non usiamo mezzi termini: era un str***o“, così Will Perdue, per 7 anni compagno di squadra di Jordan ai Bulls “Davvero, ci sono state tante volte in cui ha superato i limiti. Ma pensandoci col senno di poi, tutto questo aveva un senso, sei in grado di capire che cosa stesse cercando di ottenere: e si, è stato un grande compagno di squadra“.

La gente era spaventata da lui, anche noi che eravamo suoi compagni eravamo spaventati da lui“, Jud Buechler, altro ex compagno di squadra di Michael Jordan: “Fear factor, quel sentimento era quasi tangibile“.

In inglese si usa l’espressione “to lead by example”, dare l’esempio. Cosa che Michael Jordan ha sempre cercato di fare: “Se chiedete ad ognuno dei miei compagni di squadra, tutti vi direbbero: Michael non mi ha mai chiesto di fare qualcosa che non avrebbe fatto anche lui. Magari qualcuno potrà pensare di me come ad un tiranno, ma questo perché magari quel qualcuno non ha mai vinto nulla. Io volevo vincere, e volevo che i miei compagni vincessero assieme a me e fossero parte di quelle vittorie (…) questo è come sono io, e questa è la mia mentalità: se non vuoi giocare così, bene, nessuno ti obbligherà“.

Se era gentile? Come avrebbe potuto esserlo con una mentalità del genere?“, spiega B.J. Armstrong, che con Jordan vinse 3 titoli NBA “Non si può essere gentili quando si è così, e stare con lui se non dimostravi di avere la stessa sua dedizione al basket, non era facile. Jordan non è un uomo facile“.

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