Raccontano che all’inferno ci sia un girone anche per gli Charlotte Hornets. Che senso ha questa dichiarazione? Teoricamente nessuno, ma se Dante fosse tra noi capirebbe perfettamente. E dato che tiriamo fuori un grande della letteratura, perché non scomodare anche la franchigia di uno dei più grandi sul campo da pallacanestro (ci scuserà Sua Maestà Jordan, ma dietro la scrivania servono ancora diversi e sensibili miglioramenti)? La franchigia di MJ merita un posto agli Inferi per un motivo davvero ovvio: sta commettendo un grave peccato, verso se stessa e i propri tifosi, e questo si chiama ignavia. Questa altro non è che l’incapacità, o meglio, la mancata volontà di prendere una decisione, di schierarsi da una parte.
E in NBA, per sopravvivere e proseguire nei cicli cestistici, bisogna scegliere: stare col partito di chi perde per rinascere o in quello di coloro che vincono perché si sono migliorati per riuscirci. “In medio virtus” risponderebbero i latini, ma nella pallacanestro questo non vale, semplicemente per il fatto che qualcuno deve vincere e qualcun altro deve perdere; eppure gli Hornets hanno scelto la mediocrità: troppo forti per dedicarsi al tanking, troppo deboli per partecipare al ballo della postseason.

Micheal Jordan, ex giocatore dei Bulls ed attuale proprietario dei Charlotte Hornets.
Ma ora basta con la retorica, entriamo nei fatti in maniera netta. Non si può sperare di essere una squadra vincente senza che le stelle abbiano attorno un buon supporting cast. La nota positiva della stagione degli Hornets è sicuramente il letale asse Kemba Walker-Dwight Howard, ritrovato. I due hanno segnato rispettivamente 22.1 e 16.6 punti di media; il primo vi ha aggiunto 5.6 assist, il secondo oltre 12 rimbalzi, ribadendo quanto la squadra dell’ormai ex coach Clifford abbia nella fisicità un punto molto forte (terzi per rimbalzi a partita). Dopo le due star? Jeremy Lamb, Nicholas Batum e Frank Kaminsky sono gli unici altri giocatori in grado di andare in doppia cifra, ma nessuno dei tre oltre i 12.9 punti. Poi viene il deserto per una squadra priva di talento dalla panchina e che fatica a distribuire il pallone. D’altronde è normale arrivare a stento a 21 assist medi quando si è in pochi a saper buttare la boccia nel cesto. Si parla di un attacco medio (tredicesimo per punti su 100 possessi con 107), ma molto mal distribuito e spesso prevedibile, costretto ad affidarsi ai giochi a due tra Walker ed Howard.
Capitolo difesa: i dati dicono che questi Hornets sanno difendere eccome, sussiste solo un piccolo, ma nemmeno troppo, intoppo, cioè che non lo fanno con costanza. I punti subiti su 100 possessi sono appena 101.7 nelle 36 vittorie; ma il numero si gonfia fino a un miserevole 110.7 nelle 46 sconfitte, una differenza troppo netta. Il roster è sicuramente ricco di buoni ed anche ottimi difensori, tanto sul pallone quanto lontano da esso e anche chi subentra ai titolari è in grado di portare il proprio mattone in difesa. E i dati di cui sopra rendono chiaro come questo sia l’ago della bilancia (almeno quello primario) per la crescita di Charlotte: trovare una costanza difensiva nell’arco della stagione. E per fare ciò fondamentale risulterà anche la scelta del coach, con il nostro (ogni tanto è bello difendere la patria) Ettore Messina che pare il profilo giusto.
Non solo scegliere bene il coach, ma anche gli uomini a roster. E l’unico modo per cambiare qualcosa saranno le trade, in quanto gli Hornets non hanno giocatori, tra quelli in rotazione, in scadenza di contratto. E allora è necessario prendere una posizione palese e impostare scambi in base a quella: l’idea dovrebbe essere il rinforzo del supporting cast, per costruire un meccanismo intorno all’immenso talento di Walker e Howard e ad una difesa (sempre!) solida. Lo chiede la città, lo chiedono i tifosi, lo chiede lo spietato meccanismo NBA: gli Charlotte Hornets sono incappati in un peccato grave, l’unica via per un futuro brillante si chiama redenzione.