La domanda che ci poniamo oggi è se sia possibile parlare di ‘dinastia’ quando una squadra non ha mai vinto due titoli consecutivi; parrebbe proprio di sì, a giudicare da ciò che hanno fatto i San Antonio Spurs nell’ultimo ventennio.
Senza mai aver schierato superstar globali come Michael Jordan, Kobe Bryant o LeBron James, la franchigia texana ha saputo mantenersi ai vertici della NBA dal 1997 ad oggi, grazie a quella che oggi viene riconosciuta come ‘Spurs Culture’. La maglia dei San Antonio Spurs è come se fosse così da sempre, divenuta ormai un classico al pari di quelle di Chicago Bulls, Boston Celtics o Los Angeles Lakers. Invece, le divise che conosciamo così bene furono inaugurate solamente nel 1989. Prima di allora, la franchigia texana non era stata niente di che.
La storia dei San Antonio Spurs
La sua storia era iniziata a Dallas, con il nome di Chaparrals. Il modo in cui venne scelto quel nome fa capire esattamente la differenza con la rinomata organizzazione attuale della società. Visto che non si riusciva a trovare una parola che mettesse d’accordo tutti, venne deciso di utilizzare il nome del locale in cui la commissione era riunita, ovvero il Chaparral Club…
Malgrado la presenza di campioni come Artis Gilmore e George ‘Iceman’ Gervin, gli Spurs (stabilitisi definitivamente a San Antonio nel 1973) non riuscirono mai ad arrivare alle Finals, sia nella ABA che nella NBA, lega che li assorbì nel 1976.
Il loro miglior momento arrivò agli inizi degli Anni’80, quando persero due finali di Conference consecutive contro gli imbattibili Lakers di Magic Johnson. Poi, con la partenza di Gervin, iniziò un lungo declino.
Il penultimo record ad Ovest fatto registrare nella stagione 1986/87 e la vittoria della lottery permisero a San Antonio di chiamare, con la prima scelta assoluta al draft, il centro David Robinson.
Robinson non aveva previsto di diventare un giocatore di basket. Dopo i primi approcci non esaltanti, l’impressionante crescita in altezza e muscolatura lo aveva convinto a ritentare con l’unico sport in cui non aveva mai eccelso. I risultati arrivarono, ma non furono tali da suscitare l’interesse dei migliori college della nazione.
Il ragazzo scelse così di iscriversi all’Accademia della Marina Militare Americana, dove si specializzò in matematica.
In marina, David fece strada tanto a livello formativo (diverrà tenente, anche se verrà soprannominato ‘L’Ammiraglio’) quanto, soprattutto, sul parquet. Divenne presto il leader della squadra di basket dell’Accademia, trascinandola addirittura alle Elite Eight del torneo NCAA nel 1986.
L’anno successivo, Robinson era ritenuto da tutti il miglior prospetto collegiale degli USA.
Per vedere all’opera il nuovo centro, però, gli Spurs avrebbero dovuto attendere altri due anni, visto che David dovette terminare il suo servizio alla Naval Academy.
Nel 1988 prese comunque parte alla spedizione olimpica di Seul, dove gli Stati Uniti vennero incredibilmente sconfitti dai nemici giurati dell’ Unione Sovietica. Robinson avrà modo di riscattarsi nel 1992, in quanto membro del leggendario Dream Team ai Giochi di Barcellona.
Il debutto dell’Ammiraglio in NBA, nel 1989, fu accompagnato dall’introduzione delle nuove divise, indossate ancora oggi dai texani.
In quegli stessi giorni, l’uragano Hugo si abbattè sulla costa sud-orientale americana, colpendo anche le Virgin Islands.
Tra i numerosi danni ci fu la distruzione della piscina olimpionica di St. Croix, dove si allenava un promettente nuotatore di nome Tim Duncan. Dopo il disastro, Tim decise di concentrarsi prevalentemente sulla carriera da cestista. Anche perché, nell’oceano, lui non si sarebbe mai allenato: quella zona era infestata dagli squali!
Per un motivo e per l’altro, quindi, l’autunno del 1989 fu il periodo che cambiò per sempre la storia dei San Antonio Spurs.
Mentre Duncan muoveva i primi passi di una carriera leggendaria alla St. Dunstan’s Episcopal High School, Robinson divenne il leader degli ‘Speroni’, guidandoli ad una storica inversione di marcia: 56 vittorie e 26 sconfitte, contro il record 21-61 della stagione precedente. Con oltre 24 punti e 12 rimbalzi di media, inoltre, si aggiudicò agevolmente il premio di rookie dell’anno.
David entrò in breve tempo nell’elite dei più grandi giocatori NBA degli Anni’90.
Ospite fisso dell’All Star Game fin dalla stagione d’esordio, nel 1994 entrò doppiamente nella storia: prima come quarto (ed ultimo finora) giocatore di sempre a registrare una quadrupla-doppia (il 17 febbraio contro i Detroit Pistons), poi con una mostruosa partita da 71 punti contro gli Orlando Magic di Shaquille O’Neal (24 aprile).
Nonostante la presenza di una superstar come ‘The Admiral’ e di altri giovani talenti come Sean Elliott ed Avery Johnson, San Antonio non riusciva ad imporsi come contender. Nemmeno l’innesto dell’ex ‘Bad Boy’ Dennis Rodman servì a superare i top team della Western Conference.
La migliore annata di quegli Spurs fu il 1994/95, quando una stagione clamorosa di Robinson, premiato come MVP della lega, guidò la squadra alle Conference Finals. Contro gli Houston Rockets del grande Hakeem Olajuwon, però, non ci fu nulla da fare: ‘The Dream’ surclassò il diretto avversario, vincendo un epico duello tra due dei migliori centri della storia.
L’estate seguente Rodman, più croce che delizia per i nero-argento visto il carattere difficile (enorme eufemismo), venne spedito ai Chicago Bulls in una trade intavolata dal nuovo general manager, tale Gregg Popovich.
Figlio di immigrati jugoslavi (padre serbo, madre croata) e laureatosi all’Accademia dell’Aeronautica Militare (un altro…), ‘Pop’ diverrà il perno attorno al quale verrà costruita la ‘Spurs Culture’.
Già passato da San Antonio nelle vesti di capo-assistente a coach Larry Brown e transitato dai Golden State Warriors, Popovich fu nominato GM nel 1994. Presto, colui che per un po’ aveva seriamente considerato una carriera nella CIA divenne una sorta di plenipotenziario.
Un infortunio alla schiena costrinse Robinson a saltare gran parte della stagione 1996/97. Dopo un inizio di regular season disastroso, Popovich, con un vero e proprio colpo di scena, licenziò coach Bob Hill e si auto-nominò capo allenatore.
L’inaspettata mossa non evitò comunque il tracollo: gli Spurs chiusero con il terzo peggior record della lega.
Non appena fu chiara la piega che avrebbe preso la stagione, l’obiettivo della dirigenza diventò uno e uno soltanto: mettere le mani su Tim Duncan. Dopo un inizio così così, Tim divenne ben presto uno dei migliori giocatori collegiali in circolazione. In molti cercarono di convincerlo a rendersi eleggibile per il draft 1995, ma Duncan aveva promesso alla defunta madre che avrebbe completato gli studi. Rimase dunque altri due anni all’università, laureandosi in psicologia e, a tempo perso, facendo incetta di premi individuali con il pallone tra le (enormi) mani.
La sera della draft lottery i pronostici per l’assegnazione della prima scelta vertevano tutti a favore di Boston Celtics e Vancouver Grizzlies, protagoniste di una stagione di spudorato tanking. La sorte premiò invece San Antonio, che la notte del draft ufficializzò il tutto: Tim Duncan era un nuovo giocatore degli Spurs.
Una delle peculiarità della cosiddetta ‘cultura Spurs’ è l’assoluta dedizione e professionalità che caratterizza tutti i membri dell’organizzazione, dall’ultimo dei magazzinieri al fuoriclasse più pagato.
Difficile credere che una condizione simile potesse crearsi con interpreti diversi.
Ad un ufficiale di marina e fervente cristiano come Robinson e ad un quasi-agente della CIA uscito dall’Aeronautica come Popovich, si unì un ragazzo tanto talentuoso quanto lontano dallo stereotipo della superstar NBA.
Estremamente riservato e solitario, Duncan proferiva parola solo quando strettamente necessario, concentrando (a suo dire) tutte le energie esclusivamente al fine di vincere le partite.
Con queste premesse, era inevitabile che sarebbero successe grandi cose in Texas…
‘Timmy’ andò a foirmare con il rientrante Robinson una nuova versione delle ‘Twin Towers’, sul modello di ciò che avevano fatto i Rockets con il duo Olajuwon-Sampson (quest’utlimo, peraltro, idolo indiscusso di David, che scelse il numero 50 in suo onore).
Con una coppia di tale calibro sotto canestro, gli Spurs diventarono una seria minaccia per chiunque.
Duncan, nei suoi primi mesi da professionista, giocava come se avesse alle spalle anni e anni di battaglie. Diede filo da torcere a tutte le migliori power forwards della lega, da Charles Barkley a Dennis Rodman. Finì la regular season con le impressionanti medie di 21,1 punti, 11,9 rimbalzi e 2,5 stoppate a partita, venendo eletto Rookie Of The Year.
San Antonio tornò ai playoff, superando i Phoenix Suns al primo turno. La serie successiva fu contro i migliori Utah Jazz di sempre, guidati da John Stockton e Karl Malone. Malgrado le grandissime prestazioni di Robinson e, soprattutto, Duncan (alle prese con il miglior giocatore dell’epoca nel suo ruolo), gli Spurs furono eliminati.
La strada intrapresa, però, era decisamente quella giusta.
Nell’autunno del 1998 la NBA si fermò per il lockout, riaprendo i battenti solamente nel febbraio successivo. Quando i giochi ripartirono, San Antonio iniziò a volare.
La banda di coach Pop vinse 37 delle 50 partite di stagione regolare (miglior record NBA), poi continuò la sua inarrestabile corsa ai playoff. Soltanto i Minnesota Timberwolves di Kevin Garnett riuscirono a infliggere loro una sconfitta (al primo turno), mentre Lakers e Blazers vennero annientati con due sweep consecutivi; per gli Spurs arrivarono le prime NBA Finals della loro storia.
Gli avversari erano i New York Knicks, prima squadra di sempre ad arrivare fino in fondo partendo con l’ottava testa di serie. Con il grande Patrick Ewing fuori per infortunio, i Knicks non riuscirono ad arginare la marea nero-argento.
San Antonio vinse il suo primo titolo NBA in cinque partite, con il canestro della staffa realizzato da Avery Johnson.
Furono però le Due Torri, ovviamente, le protagoniste di quella cavalcata trionfale. A soli due anni dal suo approdo nella lega, Tim Duncan fu nominato MVP delle finali.
Alla grande vittoria seguì un tour estivo che vide gli Spurs passare anche dall’Italia, con una memorabile sfida ai Varese Roosters (vincitori dello scudetto) di Andrea Meneghin e di un Gianmarco Pozzecco dai capelli rosso-shocking.
Poco prima di partire per l’Europa, Popovich e il nuovo GM R.C. Buford avevano messo a segno quello che, col senno di poi, si rivelerà uno dei più grandi colpi nella storia del draft. Al secondo giro, con la cinquantasettesima chiamata, avevano scelto un giocatore argentino della Viola Reggio Calabria, tale Emanuel David Ginobili, detto ‘Manu’.
La guardia sudamericana non si trasferì subito in Texas, ma passò alla Virtus Bologna. Nel 2001 l’allora Kinder vinse campionato, Coppa Italia ed Eurolega, con l’argentino nominato MVP delle finali in quest’ultima competizione.
Alla ripresa delle operazioni, San Antonio era la squadra da battere. Nel frattempo, però, il grande Phil Jackson, capace di vincere sei titoli NBA in otto stagioni con i Chicago Bulls, era approdato a Los Angeles per trasformare i giovani Lakers in una contender.
L’attesa per il grande scontro tra le Twin Towers e la dinamica coppia formata da Kobe Bryant e Shaquille O’Neal era dunque alle stelle. Sul finire della stagione regolare, però, un infortunio al ginocchio mise fuori uso Tim Duncan (vincitore del premio di All-Star MVP, pari merito con Shaq); senza il loro fenomeno, gli Spurs non andarono oltre il primo turno, eliminati dai Phoenix Suns.
Il rientro del caraibico permise a San Antonio di tornare tra le big dell’Ovest nella stagione successiva, arrivando finalmente al tanto atteso scontro con i Lakers alle finali di Conference.
Il duello si rivelò decisamente impari; da una parte Duncan e Robinson disputarono una serie non all’altezza, dall’altra Kobe e Shaq furono letteralmente devastanti. I Lakers del 2001 si rivelarono inarrestabili, perdendo una sola partita in tutti i playoff. Dopo aver spazzato via Portland, Sacramento e gli Spurs andarono a prendersi il secondo titolo consecutivo, superando per 4-1 i Philadelphia 76ers.
Nemmeno il tempo di smaltire la delusione, che la ‘premiata ditta’ Popovich-Buford rimise in moto il diabolico piano per la (ri)conquista del mondo. Nelle settimane precedenti al draft, i due visionarono un ragazzo, nato a Bruges e cresciuto a Parigi, di nome Tony Parker. Il primo ‘provino’ andò piuttosto male, ma Pop si convinse a dare una seconda chance al franco-belga. Parker passò inosservato per tutto il primo giro del draft, finchè gli Spurs non lo chiamarono con la ventottesima scelta. Quella notte era stato aggiunto il tassello mancante al puzzle perfetto.
Tony divenne in breve tempo il playmaker titolare, dando alla squadra una velocità ed un ritmo fino a quel momento sconosciuti. San Antonio, che in estate aveva aggiunto al roster un grande difensore come Bruce Bowen e un ‘tiratore scelto’ come Stephen Jackson, divenne una squadra dalle infinite soluzioni: le pericolose incursioni di Parker a creare i giusti spazi per i tiratori, con le Due Torri a controllare il pitturato.
Oltretutto, Tim Duncan era pronto ad impadronirsi della NBA; il 2001/2002 fu la migliore annata in carriera per il caraibico, che venne nominato MVP stagionale.
La corsa degli speroni, malgrado le prestazioni sontuose di Duncan, si infranse nuovamente contro l’insormontabile scoglio rappresentato dalla corazzata Lakers, lanciata verso il three-peat.
La nuova stagione partì con diverse novità. Innanzitutto gli Spurs avevano una nuova casa, con l’SBC Center (oggi AT&T) che prese il posto del vecchio Alamodome. Poi, finalmente, Manu Ginobili si unì al gruppo, dopo le imprese in terra italiana. Infine, David Robinson annunciò che quella del 2002/2003 sarebbe stata per lui l’ultima corsa.
Ulteriormente motivato dall’imminente addio del grande capitano, Duncan giocò un’altra stagione da assoluto dominatore, venendo eletto MVP per il secondo anno di fila.
San Antonio ottenne il miglior record NBA a pari merito con i Dallas Mavericks, prendendosi il fattore campo grazie agli scontri diretti.
Con l’arrivo dei playoff, Ginobili dimostrò di essere un giocatore adatto alle grandi occasioni, crescendo con l’aumentare della posta in palio. Gi Spurs eliminarono Phoenix, poi riuscirono finalmente a sconfiggere gli arcirivali gialloviola, infine superarono i Mavs, guadagnandosi l’accesso alle NBA Finals.
Contro i sorprendenti New Jersey Nets di Jason Kidd, Richard Jefferson e Kenyon Martin, Tim Duncan spiegò a tutti il significato del verbo “dominare”. Dopo aver mantenuto una media di oltre 24 punti e 12 rimbalzi a partita, sfoderò una leggendaria gara-6, in cui andò ad un soffio dalla quadrupla-doppia: 21 punti, 20 rimbalzi, 10 assist e 8 stoppate. Fu chiaramente lui, ancora una volta, l’MVP delle finali.
Per i pur volenterosi Nets non ci fu nulla da fare: i San Antonio Spurs conquistarono il secondo titolo della loro storia, regalando all’Ammiraglio il miglior finale possibile per la sua immensa carriera.
Per sopperire al ritiro di Robinson a di altri veterani come Steve Kerr e Danny Ferry, oltre che alla partenza di Stephen Jackson, vennero ingaggiati Hedo Turkoglu, Rasho Nesterovic e, soprattutto, Robert Horry.
‘Big Shot Rob’, già vincitore di cinque titoli NBA (due con gli Houston Rockets e tre con i Lakers, ottenuti anche grazie ai suoi canestri decisivi) si rivelerà fondamentale anche con la maglia nero-argento.
Il 2004 fu l’anno dell’esplosione dei Minnesota Timberwolves i quali, trascinati dall’MVP stagionale Kevin Garnett, ottennero il miglior record NBA. Le due grandi rivali Lakers e Spurs chiusero rispettivamente al secondo e al terzo posto nella Western Conference. Fu dunque inevitabile lo scontro al secondo turno.
Con la serie sul 2-2, gara-5 regalò agli appassionati di basket uno dei finali di partita più incredibili di sempre:
Dopo l’incredibile trionfo sulla sirena, i Lakers chiusero i conti in gara-6.
Malgrado la sconfitta, San Antonio rimaneva una pretendente più che legittima al trono dell’Ovest. Raggiunti i playoff con la seconda testa di serie (dietro ai micidiali Phoenix Suns di Steve Nash), gli uomini di Popovich superarono nettamente prima Denver, poi Seattle, e infine gli stessi Suns, arrivando per la terza volta in finale.
Le Finals 2005 furono tra le più combattute di sempre. Gli Spurs affrontarono i campioni NBA in carica, i mitici Detroit Pistons del grande ex Larry Brown. La partita chiave della serie fu gara-5, decisa dall’ennesima tripla ‘pesante’ di Horry. I Pistons riuscirono a portarsi sul 3-3, ma in gara-7 uno straordinario Ginobili e il solito, monumentale Duncan riportarono il titolo in Texas. Per Timmy arrivò anche il terzo trofeo di Finals MVP.
Un’altra caratteristica del ‘ventennio’ d’oro degli Spurs fu la particolare avversione per il back-to-back. Malgrado i ‘Big Three’ Duncan-Ginobili-Parker fossero all’apice della loro carriera in quegli anni, la squadra non riuscì mai a vincere due titoli consecutivi. Nel 2006, infatti, i texani si arresero al secondo turno ai Dallas Mavericks di Dirk Nowitzki.
Per vincere si dovette aspettare di nuovo l’anno dispari.
I playoff del 2007 verranno per sempre ricordati per la clamorosa sconfitta dei Mavs al primo turno contro l’ottava testa di serie, i Golden State Warriors di Baron Davis (lontani anni luce da quelli attuali). Con Dallas fuori dai giochi, lo scontro chiave dell’intera post-season fu quello tra San Antonio e Phoenix.
Anche a causa delle squalifiche di Amar’e Stoudamire e Boris Diaw in gara-5, la truppa di coach Mike D’Antoni dovette arrendersi allo strapotere dei nero-argento. La strada verso il quarto titolo era spianata: sbarazzatisi degli Utah Jazz di Deron Wiliams e Carlos Boozer, gli Spurs umiliarono in finale i Cleveland Cavaliers. O meglio, LeBron James, il quale aveva condotto quasi da solo alle Finals una squadra assolutamente non all’altezza.
Questa volta l’MVP delle finali fu Tony Parker, vero e proprio ‘motore’ della schiacciasassi texana.
La maledizione del back-to-back non fece eccezioni nella stagione successiva, che finì al secondo turno contro i rinnovati Lakers, privi di Shaq ma forti di un Kobe Bryant versione MVP.
In seguito all’eliminazione, cominciarono a risuonare le prime critiche nei confronti di un roster ormai vecchio, pieno di giocatori sul viale del tramonto.
Effettivamente, gli Spurs iniziarono a perdere qualche colpo, non andando oltre il secondo turno di playoff fino al 2012, quando vennero sconfitti in finale di Conference dai rampanti Oklahoma City Thunder, guidati dal giovanissimo trio formato da Kevin Durant, Russell Westbrook e James Harden.
La mossa che ha cambiato il futuro dei San Antonio Spurs
La sera del draft 2011, tuttavia, la dirigenza aveva pescato l’ennesimo ‘coniglio dal cilindro’. Popovich sacrificò a malincuore uno dei suoi pupilli, il playmaker George Hill, per ottenere dagli Indiana Pacers la scelta numero 15, con la quale fu selezionato Kawhi Leonard, ala di San Diego State.
Leonard, oltre che un talento fuori dal comune, si rivelerà la persona giusta per la ‘cultura Spurs’; timidissimo e taciturno (anche per via del tragico omicidio del padre che ne segnò l’infanzia in quel di Compton, quartiere degradato di Los Angeles), Kawhi riusciva ad esprimersi al meglio solamente con le azioni sul campo e con il duro lavoro.
NBA Finals: i San Antonio Spurs senza tempo
I ‘vecchi’ San Antonio Spurs, incuranti del tempo tiranno, riuscirono a tornare alle NBA Finals nel 2013, contro i Miami Heat di LeBron James, Dwyane Wade e Chris Bosh.
Ai soliti ‘Big Three’ e ad un grandissimo Leonard si aggiunsero due protagonisti inaspettati: Danny Green e Gary Neal, che con le loro triple contribuirono al vantaggio 3-2 con cui San Antonio si presentò in Florida per gara-6.
Ciò che successe quella sera rimane tuttora nella memoria degli appassionati.
A 28 secondi dalla fine, con gli Spurs avanti di cinque punti, all’American Airlines Arena di Miami iniziarono i preparativi per la consegna del quinto titolo a Duncan e soci.
Oltre al trio James-Wade-Bosh, però, gli Heat potevano contare sul miglior tiratore della storia della lega. Fu così che Ray Allen decise di lasciare ai posteri una prodezza leggendaria:
Si andò all’overtime, dove Miami riuscì a spuntarla, pareggiando la serie e forzando gara-7.
L’incontro decisivo di quella serie, vinto da LBJ e compagni, regalò un momento che descrive più di ogni altra cosa la grandezza di Tim Duncan. Dopo aver sbagliato un facile tap-in, il caraibico si lasciò andare ad un rarissimo sfogo, colpendo il parquet con un pugno rabbioso. Nonostante avesse vinto tutto, e ripetutamente, la sconfitta, perlopiù causata da un suo banale errore, rimaneva per lui qualcosa di assolutamente inaccettabile.
Piccola nota a margine: poco prima dell’inizio dei playoff, i San Antonio Spurs avevano messo sotto contratto Tracy McGrady, un tempo superstar assoluta della lega. Sebbene utilizzato soltanto nel garbage time, quelle finali perse furono per T-Mac il miglior risultato di squadra mai raggiunto in carriera. Dopo l’ennesima sconfitta, ‘The Big Sleep’ annunciò il ritiro.
La cocente delusione diede alla stagione successiva un sapore di vendetta mai avvertito prima. Gli Spurs erano una squadra in missione.
Il roster rimase pressoché inalterato, fatta eccezione per la partenza di Gary Neal, sostituito da Marco Belinelli. L’italiano, reduce da un’ottima stagione a Chicago, vivrà la miglior stagione della sua carriera, riuscendo persino a vincere la gara di tiro da tre punti all’All-Star Saturday.
Il 2014 fu l’anno dell’apoteosi della ‘Spurs Culture’. Popovich e il suo staff misero a punto un piano di gioco maniacale, basato sul concetto di ‘good to great’, ovvero rinunciare a un buon tiro per costruirne uno ancora migliore.
Grazie soprattutto a degli interpreti perfetti ai San Antonio Spurs, l’idea di Pop divenne realtà. I vari Duncan, Ginobili, Parker, Leonard, Diaw, Green, Belinelli, Thiago Splitter, Patty Mills divennero i musicisti di una straordinaria orchestra, mettendo in scena quello che verrà riconosciuto come ‘The Beautiful Game’.
Duncan e compagni si impadronirono nuovamente della Western Conference. Dopo aver superato finalmente i Thunder, arrivarono alla tanto attesa rivincita con Miami.
Quegli Spurs, però, non potevano essere fermati. La squadra di Popovich mostrò alle Finals un livello di gioco mai visto in precedenza, annichilendo quella di Erik Spoelstra con un secco 4-1.
A quindici anni dalla prima volta, i San Antonio Spurs erano di nuovo campioni NBA. Il premio di Finals MVP segnò la definitiva consacrazione di Kawhi Leonard, terzo giocatore più giovane di sempre a vincere il trofeo (dopo Magic Johnson e… Tim Duncan!).
Meglio di così, francamente, non si poteva fare.
L’età ormai avanzata di Duncan e Ginobili costrinse Popovich ad impiegarli con il contagocce nelle due stagioni successive, e si rivelò un grosso problema contro avversari più giovani e dinamici.
Nel 2015 San Antonio fu eliminata al primo turno dai Los Angeles Clippers di un grande Chris Paul. L’anno successivo, nonostante l’arrivo di LaMarcus Aldridge, gli Spurs si arresero alla rimonta dei Thunder, che negarono ai texani l’attesissima finale di Conference contro i Warriors delle 73 vittorie stagionali.
Cala il sipario sui San Antonio Spurs? No ricambio generazionale
L’11 luglio 2016 il capitolo più importante della storia di questa franchigia venne chiuso per sempre: Tim Duncan annunciò il ritiro, ormai nell’aria da un paio di stagioni.
Certo, l’arrivo di David Robinson fu l’evento che diede la prima svolta, e di sicuro Leonard e Aldridge sono i giocatori giusti per portare avanti la tradizione.; il numero 21, però, è stato a tutti gli effetti LA franchigia.
Ne è stato il leader incontrastato per quasi vent’anni, sia all’apice della forma, quando dominava sotto i tabelloni, sia nelle ultime stagioni, zoppicando per il campo. E’ stato il generale più fidato di Gregg Popovich, il suo alter ego. Il rapporto tra i due si potrebbe paragonare a quello che, negli Anni ’60, ebbero Bill Russell e Red Auerbach, protagonisti della prima, grande dinastia della storia NBA. Soprattutto, il gigante caraibico è stato colui che ha reso una buona squadra una squadra immortale, diventando il pilastro fondamentale su cui costruire la ‘Spurs Culture’ di Popovich e Buford. Colui che nel 1997 indossò per la prima volta quella maglia nero-argento, entrata di diritto nella leggenda.
Ed ora calerà il sipario su San Antonio? No, niente affatto, i San Antonio Spurs continuano la loro corsa per i playoffs, la loro corsa verso l’ennesima stagione in post season affidandosi a Murray, LaMarcus Aldridge ed ovviamente Leonard…