Nel 1978, i Los Angeles Lakers attuarono una piccola ‘rivoluzione’. I numeri in bianco sulle loro storiche divise, quelli con cui Jerry West e Wilt Chamberlain avevano portato il primo titolo alla franchigia dopo il trasferimento da Minneapolis, diventarono viola. Un restyling di poco conto, all’epoca. Le nuove maglie, però, diverranno il simbolo di una squadra che segnerà un’epoca e ispirerà un’intera generazione, rivoluzionando per sempre la storia del basket. Stava per iniziare lo ‘Showtime’: l’inizio di quelli che avremmo chiamato “Los Angeles Lakers Showtime”.
Durante il draft di quell’anno, il giocatore collegiale più ambito era un certo Larry Bird, da Indiana State University. La franchigia professionistica del suo stato natale, gli Indiana Pacers, aveva ottenuto la prima scelta assoluta, ma il ‘matrimonio’ sportivo tra le due parti, che sembrava scontato, non si fece mai (almeno per quanto riguarda il Bird giocatore). Larry, infatti, era intenzionato a rimanere un altro anno al college per dare la caccia al titolo NCAA, e la sua ostinazione convinse i Pacers a cedere la propria scelta a Portland. Anche i Blazers, in uno dei primi ‘twist of fate’ del loro tormentato rapporto con i draft, desistettero dal chiamare il biondino, che fu selezionato con la sesta chiamata dai Boston Celtics. Le strade di Bird e dei Lakers si incroceranno più volte negli anni a venire, dando nuovi fasti alla più grande rivalità sportiva di tutti i tempi.
I Lakers dell’epoca, seppur guidati dal 5 volte MVP Kareem Abdul-Jabbar e da un grandissimo difensore come Michael Cooper, faticavano parecchio ad imporsi, superati ogni anno da squadre ben più attrezzate, quali Portland o Seattle. Lo stesso Kareem era stato coinvolto in alcuni degli episodi peggiori di quegli anni, ovvero le due risse che portarono nel primo caso alla rottura della mano dell’ex Lew Alcindor, nel secondo al pugno di Kermit Washington che rischiò di uccidere il giocatore (e futuro allenatore) degli Houston Rockets Rudy Tomjanovich.
L’intera NBA, in un periodo segnato anche dal diffuso consumo di droga, aveva bisogno di una netta ripulita.
L’anno della svolta: Los Angeles Lakers Showtime
La svolta, sia per i Lakers che per la lega in generale, arrivò con il draft del 1979. E’ davvero incredibile la serie di ‘sliding doors’ che portarono in California Earvin ‘Magic’ Johnson.
All’epoca, la prima scelta assoluta veniva assegnata con lo “scientifico” metodo del lancio di una monetina tra le peggiori squadre dell’una e dell’altra Conference. Il caso volle che il peggior record ad ovest fosse quello dei New Orleans Jazz, i quali tre anni prima avevano scambiato la loro scelta con… i Lakers!
La moneta premiò i gialloviola, che ebbero la meglio sui Chicago Bulls. Pensate a cosa sarebbe successo in caso di esito opposto: Magic ai Bulls… e dove sarebbe finito Michael Jordan, quattro anni più tardi?
Solo Hollywood poteva partorire una trama del genere…
In un modo o nell’altro, quindi, i Lakers misero le mani sull’Uomo Magico, il quale si era guadagnato il leggendario soprannome già ai tempi del liceo, prima di incantare i tifosi di Michigan State University con le sue mirabolanti giocate.
Con la maglia degli Spartans, Johnson aveva conquistato il titolo NCAA, sconfiggendo in finale proprio Indiana State e quel Larry Bird che, insieme e contro Magic, scriverà pagine indimenticabili della storia NBA.
Già dalle prime apparizioni in campo di Magic, fu chiaro a tutti che la lega non sarebbe stata più la stessa. Il suo stile di gioco rivoluzionario e altamente spettacolare, impreziosito dagli inimitabili no-look pass e dai lanci a tutto campo per servire i compagni in contropiede, diede presto vita ad un termine che definiva perfettamente cosa volesse dire assistere ad una partita dei Lakers, specialmente nella mitica cornice del “Great Western Forum” di Inglewood: “Showtime”, per l’appunto.
Al termine del primo incontro stagionale, vinto contro i Clippers, Magic si ‘abbattè’ con incredibile entusiasmo sul grande capitano Kareem, autore del canestro della vittoria, come se i due avessero appena vinto il titolo NBA; ben presto i due avrebbero avuto davvero l’occasione per festeggiare insieme quel traguardo.
Trascinata dalle magie di Johnson (che arrivò però secondo nelle votazioni del Rookie Of The Year, dietro a…Larry Bird) e dall’ennesima, straordinaria stagione di Kareem (premiata con il sesto titolo di MVP in carriera, record tuttora ineguagliato), la squadra di coach Paul Westhead arrivò alle NBA Finals, dove ad aspettarli c’erano i Philadelphia 76ers di ‘Doctor J’ Julius Erving.
Quelle finali passarono alla storia principalmente per due motivi: la leggendaria ‘baseline move’ di Erving in gara-4 e l’inumana prestazione di Magic nella decisiva gara-6, che assegnò il titolo ai californiani.
Con Kareem fuori causa per un infortunio alla caviglia, Magic fu schierato inizialmente come centro (d’altronde disponeva di un’altezza sopra la media per un playmaker), per poi ricoprire, nel corso della partita, praticamente tutti i cinque ruoli. Nonostante le difficoltà della situazione, soprattutto considerando che si trattava di un rookie, Johnson dominò l’incontro, chiudendo con 42 punti, 15 rimbalzi e 7 assist. Il premio di Finals MVP fu naturalmente suo, e il giorno dopo il Los Angeles Times, celebrando la vittoria dei Lakers, titolò: “IT’S MAGIC!”.
Con l’esplosione della sua nuova stella, L.A. sembrava destinata a dominare anche negli anni successivi. Ai playoff del 1981, invece, i Lakers furono eliminati a sorpresa dagli Houston Rockets di Moses Malone, i quali persero poi in finale contro Bird e i Celtics.
Los Angeles Lakers Showtime: la leggenda di Pat Riley
Il riscatto arrivò la stagione successiva, segnata dal licenziamento di Westhead (su forte pressione dello stesso Johnson, che accusò l’allenatore di rendere “lento e prevedibile” l’attacco) e dalla promozione a head coach del giovane assistente Pat Riley.
Già tra i protagonisti – nelle vesti di giocatore – del titolo vinto nel 1972, Riley prese subito il controllo della squadra, plasmandola fino a renderla una macchina inarrestabile e conducendola nuovamente, a 10 anni da quel titolo, alle NBA Finals.
Come nel 1980, gli avversari furono Doctor J e i Sixers i quali, come in quell’occasione, rimasero a bocca asciutta. Con Magic (di nuovo Finals MVP) e Kareem aiutati dal neoacquisto Bob McAdoo, i Lakers tornarono sul tetto del mondo.
Subito dopo aver riconquistato l’anello, i gialloviola furono protagonisti della seconda, enorme, botta di…fortuna in pochi anni: ancora una volta, la prima scelta assoluta al draft fu assegnata ad una squadra (Cleveland) che ne aveva scambiato in precedenza i diritti proprio con i Los Angeles Lakers Showtime. Venne così chiamato, da North Carolina, James Worthy, che divenne la ciliegina sulla già deliziosa torta dello Showtime di Riley.
Come da pronostico, nessuno riuscì a fermare i Lakers nemmeno nella stagione successiva; per la terza volta in quattro anni, Magic e compagni arrivarono alle Finals contro Philadelphia.
Worthy, però, si era infortunato a stagione in corso, e non poté contribuire alla causa. Grazie ad Erving e ad un monumentale Moses Malone (arrivato da Houston ad inizio stagione) i Sixers, dopo i precedenti tentativi andati a vuoto, riuscirono finalmente a mettere le mani sul titolo.
Per quanto riguardava la Western Conference, ad ogni modo, non c’era storia: nessuno poteva tenere testa alla spettacolare squadra californiana, che si presentò puntualmente alle Finals anche nel 1984.
Gli avversari, quella volta, non erano più i Sixers, bensì i Boston Celtics dell’MVP stagionale Larry Bird.
Nel giro di pochissimi anni, Bird e Magic erano diventati gli uomini simbolo della nuova NBA. Sbarcati tra i professionisti nello stesso anno (1979), con le loro gesta avevano ridato luce ad una lega che, sul finire degli Anni ’70, navigava in cattivissime acque. Basti pensare che le Finals del 1980, quelle di Kareem contro Doctor J, furono trasmesse in differita persino negli USA!
Johnson e Bird catalizzarono l’attenzione dei media con il loro talento (dal loro approdo in NBA, almeno uno dei due era apparso in ogni singola edizione delle Finals, tendenza che continuerà per tutto il decennio) e con le loro differenze: da una parte una superstar nera che dava spettacolo nella luccicante Hollywood, dall’altra un bianco dell’Indiana nell’operaia Boston.
Il dualismo sul campo (in realtà nella vita i due divennero grandi amici) tra le giovani stelle fece grandi proseliti anche in Italia dove, grazie anche alle mitiche telecronache di Dan Peterson (e con mostruose differite rispetto agli USA, ma poco importava), migliaia di fan si appassionarono all’emergente rivalità.
In quel 1984, finalmente, Larry e Magic si trovarono l’uno di fronte all’altro, in una serie finale attesa da anni.
Dopo l’era delle sfide tra le squadre di Bill Russell e Jerry West, il palcoscenico era pronto per un nuovo capitolo dell’infinita saga “Los Angeles Lakers Showtime vs. Celtics”!
Los Angeles Lakers Showtime: il primo scontro tra titani
Il primo ‘scontro fra titani’ non deluse le attese: le due grandi ‘nemiche’ diedero vita ad una serie epica e combattuta (memorabile il fallaccio ‘stile WWE’ di Kevin McHale ai danni di Kurt Rambis), che si concluse con un’infuocata gara-7 al Boston Garden. Grazie ad alcuni errori dalla lunetta e a banali palle perse da parte di Magic nel finale, Bird (premiato poi come MVP della serie) e compagni vinsero partita e titolo, infliggendo al numero 32 gialloviola la sconfitta più bruciante della sua carriera.
La stagione successiva vide il tanto atteso rematch tra le due superpotenze.
I Celtics, che si presentavano con il sesto uomo dell’anno (McHale) e il due volte MVP (Bird), distrussero la squadra di Riley con 34 punti di scarto in una gara-1 che passerà alla storia come il Memorial Day Massacre. Magic e compagni, però, con il decisivo contributo di Kareem, che a 38 anni suonati vinse il secondo titolo di Finals MVP in carriera, riuscirono a ribaltare la serie, conquistando il nono titolo nella storia della franchigia e pareggiando i conti con gli arcirivali.
Quelli che tornarono in finale (vincendola 4-2) nel 1986, guidati dal solito Bird (MVP per la terza stagione consecutiva), furono i più forti Celtics dell’era post-dinasty. L’occasione per la ‘bella’ con i grandi Lakers, però, sfumò alle finali della Western Conference, quando un tiro allo scadere del centro dei Rockets Ralph Sampson sancì l’eliminazione dei californiani.
Lo Showtime, ad ogni modo, continuava a correre selvaggio, raggiungendo il suo apice nel biennio successivo.
Grazie ad un Magic Johnson versione MVP della regular season e al difensore dell’anno Michael Cooper, i gialloviola si ripresentarono alle Finals, per il tanto atteso spareggio tra le due più grandi squadre del decennio.
Il terzo, epico capitolo della rivalità vide emergere, ancora una volta, l’Uomo Magico, che si prese Finals MVP e Larry O’Brien Trophy riportando i Los Angeles Lakers Showtime in cima al mondo. Johnson realizzò inoltre la giocata simbolo di quella serie, il cosiddetto baby-hook (una versione ‘in miniatura’ dello skyhook di Kareem) che decise gara-4:
Quella del 1987 fu l’ultima sfida per l’anello tra le due leggendarie formazioni, almeno nella versione 80’s (Boston e L.A. si sfideranno nuovamente nel 2008 e nel 2010, ma quella è decisamente un’altra storia).
Mentre l’epopea di quei Celtics iniziava una fase di declino, soprattutto per via dei gravi problemi alla schiena di Bird e dell’ascesa dei ‘Bad Boys’ di Detroit, futuri padroni della Eastern Conference, i Lakers continuarono a dominare la lega.
Nel 1988 riuscirono, come profetizzato da Pat Riley durante la parata dell’anno precedente, nell’impresa del back-to-back, sconfiggendo proprio i Pistons di un grande Isiah Thomas grazie ad una serie superlativa di James Worthy. Gli ultimi a vincere il titolo NBA per due stagioni consecutive erano stati i Celtics del 1969, quelli della Dynasty di Bill Russell.
Los Angeles Lakers Showtime: three-peat
Per rispondere alle incessanti domande sulla caccia ad un terzo trionfo, il coach gialloviola coniò (e addirittura brevettò) l’espressione three-peat.
Come tutte le grandi leggende, però, anche quella dello Showtime era destinata a finire. I Los Angeles Lakers Showtime raggiunsero per l’ennesima volta le Finals nel 1989 (dopo aver annientato Blazers e Sonics), ma Detroit si prese una clamorosa rivincita e spazzò via il sogno di Riley con un secco 4-0.
Nei mesi successivi, la mitica squadra iniziò a perdere alcuni dei suoi tasselli fondamentali; il primo fu il capitano, Kareem, che subito dopo la sconfitta in finale annunciò il ritiro, alla veneranda età di 42 anni.
Dopo la cocente eliminazione subita ai playoff del 1990 per mano dei Phoenix Suns, era ormai palese come il ‘giocattolo’ di Riley fosse ormai inesorabilmente usurato.
Di lì a poco, anche Michael Cooper salutò la compagnia e salì su un aereo per Roma, dove disputò con la Virtus l’ultima stagione in carriera. Quando infine Pat Riley, a sua detta esaurito dopo tanti anni sulla cresta dell’onda, lasciò la squadra, sostituito da Mike Dunleavy, la fine di quella gloriosa formazione era ormai imminente.
Il ‘sipario’ sullo Showtime calò definitivamente nel 1991.
Magic e compagni raggiunsero di nuovo le Finals, ma sulla loro strada trovarono il nuovo dominatore della NBA, Michael Jordan, che con i suoi Chicago Bulls scrisse il primo capitolo della SUA dinastia vincendo una serie marchiata a fuoco da uno spettacolare cambio di mano aereo di Jordan che passerà alla storia come The Move.
Poco prima dell’inizio della stagione seguente, Magic Johnson scoprì di essere sieropositivo, e annunciò in diretta TV il suo ritiro immediato.
Il grande playmaker tornò in seguito a calcare i parquet (prima disputando l’All Star Game 1992, di cui fu eletto MVP, poi unendosi al Dream Team per le Olimpiadi di Barcellona) e indossò di nuovo la storica maglia gialloviola numero 32 nella stagione 1995/96, regalando le ultime perle di una carriera straordinaria (compresa l’ultima tripla-doppia, a San Valentino contro gli Atlanta Hawks) e guidando i suoi Lakers ai playoff, dove però furono sconfitti da Houston al primo turno.
Malgrado la presenza di Magic, lo Showtime era ormai un ricordo, tanto scintillante quanto lontano.
Le ultime stagioni di vita di quelle divise, con cui i Lakers avevano dominato gli Anni’80, furono piene di sconfitte e delusioni.
Almeno fino all’estate del 1996, quando nella ‘città degli angeli’ arrivarono due ragazzi di belle speranze, tali Kobe Bryant e Shaquille O’Neal. Qualche anno più tardi, indossando le maglie nella versione Anni 2000, le due giovani stelle daranno vita ad una nuova, esaltante pagina della gloriosa storia gialloviola.
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