Home NBA, National Basketball AssociationNBA TeamsChicago Bulls La storia di Michael Jordan: biografia aggiornata

La storia di Michael Jordan: biografia aggiornata

di Stefano Belli
jordan maglia the last dance

Michael Jordan, un nome e un cognome che hanno cambiato per sempre la storia del basket: dal draft 1984 a oggi, tutti conoscono il suo numero di maglia, la numero 23 e bramano di aver anche solo un briciolo del suo talento.

Ma Jordan era altro, non era solo talento: una mente fuori dal comune, un’etica del lavoro ossessiva e una voglia di vincere che lo hanno reso uno dei migliori giocatori di basket di sempre.

Tra tutte le maglie che hanno segnato capitoli indimenticabili della lunga e appassionante storia del basket americano, quella rossa con scritto davanti “Bulls” è senza ombra di dubbio la più riconoscibile. Anche chi non ha mai visto una partita in vita sua, salvo rarissime eccezioni, vi potrà dire: “Ah, quella è la maglia di Michael Jordan!”.

Già, perché quel ragazzo nato a Brooklyn e cresciuto a Wilmington (North Carolina) ha trasformato quei colori e quel numero in una vera e propria icona.
Effettivamente, la leggenda di Michael Jordan è stata scritta soprattutto con quella bellissima maglia rossa. Sono però tantissime le maglie fondamentali nella carriera di un uomo diventato mito. Per ‘celebrare’ la Jersey Story n.23, andiamo a riscoprire insieme quelle più importanti… si parte!

Michael Jordan

 

Michael Jordan a North Carolina: (1981/84)


01 - NC
Come per tutti (o quasi) i signori della NBA, l’epopea di Michael Jordan iniziò al college. Durante i quattro anni alla corte del mitico coach Dean Smith, Jordan lasciò un segno indelebile sul prestigioso ateneo, tanto che oggi lo sponsor tecnico dei Tar Heels è proprio Air Jordan, il marchio creato su misura per Michael (come vedremo più avanti) dalla Nike.
Nella sua prima stagione la squadra di Smith, forte di due star come James Worthy e Sam Perkins, arrivò alla finale NCAA. Michael, che a fatica stava entrando nelle grazie del coach (per via del suo stile di gioco troppo ‘accentratore’) segnò il primo canestro decisivo della sua leggenda, regalando il titolo ai Tar Heels. L’avversaria di quella sera era la Georgetown University di tale Patrick Ewing, che diverrà uno dei più fieri rivali di Michael anche nella NBA.
Quel tiro trasformò Jordan in una star assoluta del college basketball. Le due stagioni successive furono piuttosto avare di risultati di squadra, ma videro il numero 23 (scelto da Michael al liceo in quanto “metà di 45, il numero indossato da mio fratello Larry”) migliorare esponenzialmente, sia sul piano offensivo che su quello difensivo. Nel 1984, dopo aver vinto tutti i premi possibili come miglior giocatore collegiale, Michael lasciò per sempre i Tar Heels per approdare in NBA. Oggi questa maglia (o meglio, la versione bianca) è Michael Jordan  appesa al soffitto del Dean Smith Center di Chapel Hill, North Carolina.

Michael Jordan con il Team USA, Los Angeles 1984


02 - USA 1984
Prima di sbarcare tra i professionisti, il giovane Michael Jordan prese parte alla spedizione di soli universitari (come da regolamento vigente all’epoca) che stravinse i giochi olimpici di Los Angeles. Quell’estate la strada di Michael incrociò quella di un altro leggendario coach: Bobby Knight. Il ‘Generale’, salito alla gloria come allenatore degli Indiana Hoosiers (tra i suoi giocatori ci fu anche Mike Krzyzewski, a sua volta leggendario allenatore di Duke University e Team USA), aveva mietuto vittime illustri durante le selezioni, arrivando ad escludere giocatori del calibro di Charles Barkley (la cui ‘testa calda’ non piacque moltissimo all’integerrimo coach) e John Stockton (troppo piccolo…).
Il talento non mancava comunque alla rappresentativa statunitense; oltre a Jordan, infatti, Knight poteva contare sul vecchio compagno di MJ Sam Perkins, sull’avversario del 1982 Patrick Ewing e sul futuro dream teamer Chris Mullin.
La presenza di altri grandi giocatori collegiali fu uno stimolo in più per un Jordan già ultra-competitivo. Michael chiuse i Giochi come miglior realizzatore del torneo, mettendo in mostra, spesso e volentieri, giocate estremamente spettacolari. Alla luce dei suoi ‘lampi’ olimpici, quando Michael Jordan arrivò nella NBA era già considerato una star.

 

Michael Jordan sbarca nella lega: Chicago Bulls  (1984/85)

03 - Rookie

In un draft NBA passato alla storia come il più ricco di talento di ogni epoca, Michael Jordan venne chiamato con la terza scelta .Al termine dell’ennesima stagione perdente, i Bulls si aggiudicarono la terza scelta assoluta al draft NBA 1984, che si sarebbe tenuto il 19 giugno al Madison Square Garden di New York sotto l’egida del nuovo commissioner David Stern (il quale difficilmente avrebbe potuto scegliere un momento migliore in cui iniziare il suo mandato…).

L’impatto di Jordan con il basket professionistico fu semplicemente sensazionale. Il numero 23 risollevò da subito le sorti della franchigia, diventandone la principale attrazione. Dopo pochi mesi, molte persone riempivano i palazzetti avversari solamente per vederlo giocare.
Con la scritta in corsivo “Chicago” sul petto, utilizzata per l’ultima volta dai Bulls in quella stagione 1984/85, Michael si guadagnò la convocazione all’All Star Game come titolare, nonché il premio di Rookie Of The Year.

Nel weekend delle stelle, Michael partecipò ad una delle gare di schiacciate più attese di sempre. Oltre al talento di Chicago, tra i partecipanti figuravano Clyde Drexler, Dominique Wilkins e nientemeno che ‘Doctor J’, Julius Erving.
La finale fu il primo capitolo del duello tra Jordan e Wilkins. In quel 1985 vinse ‘The Human Highlight Film’, ma Jordan avrà modo di ‘vendicarsi’ due anni più tardi.


Trascinati dalla loro giovane stella, i Bulls tornarono ai playoff dopo quattro anni di assenza. Verranno sconfitti al primo turno dai Milwaukee Bucks di Sidney Moncrief, ma con la consapevolezza di avere tra le mani un giocatore mai visto prima. Ma andiamo per ordine e concentriamoci sulle maglie indossate da Jordan quell’anno. 

 

 

03b - Rookie 2Merita una menzione speciale la divisa utilizzata dai Bulls per le partite casalinghe in quel primo, folgorante anno di carriera di Michael Jordan.La maglia con il numero 23 scritto in piccolo su un fianco comparve in una delle prime campagne pubblicitarie che Michael fece per la Nike, per promuovere le mitiche Air Jordan I.
La casa di abbigliamento dell’Oregon aveva messo gli occhi su Jordan durante le olimpiadi del 1984. Intuendo l’enorme potenziale, sia come giocatore che come endorser, del ragazzo, l’agente Sonny Vaccaro lo mise sotto contratto per una cifra allora record: due milioni di dollari in cinque anni. Senza avere messo neppure un piede sui parquet NBA, quindi, Michael era già uno degli atleti più ricchi al mondo.

L’accordo tra Jordan e la Nike si rivelerà una vera e propria miniera d’oro, tanto per il giocatore, quanto per il brand che, nel giro di pochi anni, divenne un colosso dell’abbigliamento sportivo.
Il binomio Jordan-Nike, un progetto di marketing sportivo senza precedenti, portò alla creazione di una linea chiamata Air Jordan che ancora oggi, a tredici anni dal ritiro definitivo di MJ, fornisce scarpe, magliette e cappellini a milioni di giovani in tutto il mondo. Il mitico logo, definito ‘jumpman’ nascerà durante lo Slam Dunk Contest del 1987. Quella indossata da Michael in quell’occasione, però, sarà un’altra maglia…

 

Michael Jordan all’All Star Game 1985

04 - ASG 1985

Michael Jordan all’all star game del 1985

 

Il primo All Star Game di Michael Jordan fu teatro di uno degli episodi più controversi della sua carriera: il cosiddetto freeze-out game.


Le favolose prestazioni del numero 23 dei Bulls minacciavano seriamente di mettere in secondo piano le altre grandi stelle della lega. L’idea non piaceva affatto a Isiah Thomas, leader dei Detroit Pistons, il quale, secondo la leggenda (dopo la partita, sia – ovviamente – Thomas che tutti gli altri, Jordan incluso, negarono l’accaduto), organizzò una sorta di ‘boicottaggio’ ai danni del nuovo fenomeno. Il ‘diabolico piano’ prevedeva che i compagni (tra cui spiccavano Doctor J e Larry Bird, certo, ma anche il più che sospetto Bill Laimbeer, ‘braccio armato’ di Thomas nei ‘Bad Boys’ di Detroit) evitassero di coinvolgere troppo Michael nel gioco, mentre gli avversari lo puntassero costantemente, cercando di ridicolizzarlo con giocate spettacolari ai suoi danni.
Il trucco sembrò funzionare: Jordan chiuse con la miseria di 7 punti, mentre Thomas ne fece 22. Ciò che forse Isiah non poteva prevedere, però, erano le conseguenze di quel ‘complotto’, sia a breve che a lungo termine. Due giorni dopo, infatti, la furia di MJ si abbatté sui Pistons, umiliati dai 49 punti e 15 rimbalzi del 23. Quel freeze-out game, però, fu anche una delle cause dell’esclusione di Isiah Thomas dal leggendario Dream Team, ben sette anni dopo quella controversa partita.

 

L’era della maglia più famosa di sempre: Michael Jordan e i Chicago Bulls 1985-98

Ed eccola, la maglia più famosa di tutti i tempi. Le gesta di Jordan resero questa divisa, indossata dai Bulls fin dal lontano 1985, talmente ‘sacra’ da non essere mai più stata modificata.
Con quei pantaloncini rossi che, con la fine degli Anni ’80 e l’inizio dei ’90, si allungarono sempre più (la tendenza raggiunse gli eccessi ai tempi di Allen Iverson, autentico gangsta prestato al basket), ‘His Airness’ regalò al mondo momenti indimenticabili, che lo resero uno dei più grandi sportivi del Novecento.

Dalla partita da 63 punti (persa) contro i grandi Boston Celtics di Larry Bird (che commentò con l’immortale “credo fosse Dio travestito da Michael Jordan”) alla schiacciata del Jumpman con cui si aggiudicò la rivincita con Wilkins nel 1987. Dal ‘poster’ sul gigantesco Mel Turpin con la dedica “Is it big enough?” rivolta ad un tifoso degli Utah Jazz seduto in prima fila (secondo alcuni l’ex proprietario della franchigia, che lo aveva criticato per aver schiacciato in testa, poco prima, al ‘piccolo’ John Stockton) a quello su Patrick Ewing. Da ‘The Shot’, con cui eliminò i Cavs nel 1989, al tiro libero ad occhi chiusi scherzando con Dikembe Mutombo, per finire con le epiche Finals contro Utah, quelle del flu game (1997, 38 punti dopo un’intossicazione alimentare) e del mitico canestro con finta su Bryon Russell (1998) che chiuse la sua carriera a Chicago; una collana di perle dal valore inestimabile, che resero la maglia rossa con scritto “BULLS 23” un’icona senza tempo.

05b - Home 1985-98

La divisa casalinga dei Bulls accompagnò Michael Jordan in alcuni momenti memorabili della sua gloriosa carriera.
Fu con quella maglia che Jordan segnò uno dei più incredibili canestri mai visti, ribattezzato ‘The Move’. Erano le NBA Finals 1991, e gli avversari degli uomini di Phil Jackson (head coach dei Bulls dal 1989) erano i Los Angeles Lakers di Magic Johnson, agli ultimi fuochi d’artificio dello ‘Showtime’. In gara-2, Jordan penetrò con decisione verso il ferro. Accortosi dell’arrivo dell’ex compagno di college Sam Perkins, per evitare la stoppata cambiò mano ‘galleggiando’ in aria, e appoggiò due punti al tabellone. Oltre a rappresentare un piccolo mattoncino nella corsa al suo primo titolo NBA, quella giocata spiegò esattamente il significato del soprannome ‘Air Jordan’.

L’anno successivo, gli avversari di Chicago nella serie per il titolo furono i Portland Trail Blazers dell’MVP Clyde Drexler. Quest’ultimo veniva indicato come il più grande rivale di MJ per il dominio della lega, perciò Michael si affrettò a mettere in chiaro le cose; 35 punti nel solo primo tempo della prima partita, con sei triple a bersaglio su altrettanti tentativi. Dopo la sesta ‘bomba’, Jordan si girò verso il tavolo dei telecronisti con una leggendaria alzata di spalle, come per dire “Che ci posso fare? Mi entrano tutte…”.

La divisa bianca era anche quella indossata dal numero 23 il giorno in cui l’acerrimo nemico Isiah Thomas ordinò ai Bad Boys di uscire dal parquet del Chicago Stadium senza salutare ed onorare i Bulls, che li avevano appena eliminati alle finali di Conference del 1991.

 

Michael Jordan con la maglia Bulls da trasferta #12 (14-02-1991)

No, non si tratta di un fotomontaggio: quello che vedete è proprio Michael Jordan, e il numero sotto la scritta “BULLS” è proprio il 12!

06a - 12 (14.2.1991, 49 p)

La sera di San Valentino del 1991, i Bulls erano di scena ad Orlando, per una gara di regular season contro i Magic (Penny e Shaq erano ancora lontani; la star dei padroni di casa era l’ex di turno, Reggie Theus). Quando Jordan e compagni entrarono negli spogliatoi prima dell’incontro, furono accolti da una spiacevole sorpresa: la casacca numero 23 era stata rubata!
Evidentemente, all’epoca non si usava portare delle maglie di scorta per ogni giocatore, per cui occorreva trovare una soluzione d’emergenza. Scartata l’ipotesi più suggestiva (far indossare a Michael la maglia portata all’Orlando Arena da qualche tifoso, possibilmente della stessa taglia), si optò per dare a MJ una maglia senza nome, con un generico numero 12.

Il curioso episodio infastidì parecchio Jordan, il quale sfogò il suo risentimento sia sui tifosi (non concedendo foto o autografi) che, soprattutto, sugli avversari, che si videro piovere in faccia 49 punti dal ‘giocatore senza nome’. Nonostante ciò, i derelitti Magic riuscirono comunque a vincere quella partita, entrata di diritto nella leggenda di MJ.

 

Michael Jordan all’All Star Game 1992

Dopo le Finals del 1991, i Lakers dello Showtime erano sul viale del tramonto. Con Kareem Abdul-Jabbar ritiratosi ormai da anni e con l’età delle altre star non più verdissima, i tempi d’oro erano ormai lontani.

“Mai sottovalutare il cuore di un campione”, dirà però Rudy Tomjanovich qualche tempo dopo. Con i ‘vecchi leoni’ ancora in campo, una rivincita tra gli ex padroni della lega e i suoi nuovi dominatori, i Chicago Bulls, era tutt’altro che impossibile. I sogni di un rematch tra Michael Jordan e Magic Johnson (che sarebbero stati i co-capitani, insieme a Larry Bird, del Dream Team di Barcellona) furono però stroncati dal drammatico annuncio di Magic, che aveva contratto il virus dell’HIV.
La star gialloviola si ritirò subito dopo aver scoperto la malattia, ma con il passare dei mesi le voci di un suo possibile ritorno one night only si fecero sempre più insistenti, fino a diventare realtà.

06b - ASG 1992

L’All Star Game del 1992 fu l’edizione più memorabile di sempre. Magic si mostrò più in forma che mai, conducendo alla vittoria il team della Western Conference e guadagnandosi il trofeo di MVP tra il delirio del pubblico, che intonò a gran voce “Magic! Magic!”. Durante l’incontro, il numero 32 ingaggiò una serie di entusiasmanti duelli con i suoi amici e rivali di sempre, tra cui i due ‘nemici storici’ Isiah e Michael. Johnson fu anche il miglior realizzatore della partita (25 punti), mentre Jordan chiuse da top scorer ad Est (18); mai come quella notte, però, i numeri passarono decisamente in secondo piano…

 

Michael Jordan con il Dream Team (Barcellona 1992)

07 - DT 1992 A

L’All Star Game del 1992 fu l’antipasto di ciò che sarebbe accaduto l’estate seguente, quando la più grande squadra mai assemblata sbarcò a Barcellona per incantare il mondo e vincere la medaglia d’oro più scontata nella storia dello sport.
Una volta abolita la regola che prevedeva la partecipazione di soli atleti universitari ai Giochi Olimpici, la USA Basketball riunì tutti i più grandi cestisti al mondo in un solo roster.
O meglio, tutti tranne uno; Isiah Thomas, infatti, fu clamorosamente escluso dalla selezione. In quanto leader dei ‘Bad Boys’, Thomas era odiato dalla quasi totalità dei giocatori NBA, dream teamer inclusi. Fu però la storica ‘antipatia’ con Jordan, a quanto pare, a sancire la mancata inclusione del fenomenale playmaker tra i dodici immortali (“O me o lui”, avrebbe detto MJ). Non che coach Chuck Daly (non a caso capo allenatore dei Pistons) avesse a disposizione poco talento, in ogni caso…

Sull’aereo per l’Europa salirono undici futuri hall of famer, più Christian Laettner, assoluto protagonista in NCAA con Duke University, selezionato per rendere omaggio alla tradizione delle rappresentative collegiali.
Oltre ai tre capitani Jordan, Magic e Bird, il team era composto da due dei migliori centri di sempre (Patrick Ewing e David Robinson), dalla leggendaria coppia di Utah John StocktonKarl Malone, da uno Scottie Pippen all’apice della carriera, da due ‘macchine da punti’ come Charles Barkley e Chris Mullin e dall’MVP stagionale Clyde Drexler.

Il Dream Team cambiò per sempre la storia della pallacanestro, permettendo ai fan di tutto il mondo di vedere per la prima volta da vicino gli dei dell’olimpo NBA. L’avventura catalana fu anche una grande vetrina per Michael Jordan, ormai a tutti gli effetti il più famoso atleta del mondo.

 

Jordan con la maglia dei Chicago Bulls #45 (1995)

08 - 45 (1995)

Nel 1993, dopo aver completato il three-peat (tre titoli consecutivi) battendo in finale i Phoenix Suns di Charles Barkley, Michael Jordan annunciò il suo ritiro dal mondo del basket.

Il suo trentesimo anno di vita era stato piuttosto tormentato. Non sul campo, dove i Bulls imperversavano, bensì fuori, con alcuni avvenimenti che lo avevano profondamente turbato. Primo fra tutti la morte del padre James, assassinato durante una rapina in una piazzola dell’autostrada, che fu la causa ufficiale della decisione di Michael di provare a cimentarsi con il baseball (primo amore paterno nonché suo sport preferito da bambino). Ad influenzare il clamoroso ritiro, però, furono probabilmente anche le scabrose vicende legate al gioco d’azzardo, che a quanto pare avevano messo nei guai Jordan con le persone sbagliate.
Fatto sta che MJ abbandonò la NBA. I Bulls, che senza la loro star furono piuttosto ridimensionati, ritirarono il numero 23, appartenuto al più grande eroe della loro storia.

Due anni più tardi, nel marzo del 1995, Jordan si presentò davanti ai giornalisti con una frase che diede una violenta scossa al mondo dello sport: “I’m back!”.
Visto che il mitico 23 era un numero ritirato, quindi non utilizzabile, Michael apparve sul campo degli Indiana Pacers indossando una nuova maglia numero 45 (come quello del fratello, nonché suo numero nel baseball fin dall’infanzia).

Di colpo, tornò la magia. Jordan mostrò al mondo di non aver dimenticato come infiammare le arene NBA, regalando fiammate come i 55 punti con cui distrusse i New York Knicks al Madison Square Garden il 28 marzo.
Per la prima volta dal 1990, però, con ‘His Airness’ in campo i Bulls non vinsero il titolo. Vennero infatti sconfitti dagli Orlando Magic di Penny Hardaway e Shaquille O’Neal al secondo turno di playoff.
Nick Anderson, che aveva contribuito al successo dei Magic con alcune eccellenti difese su Jordan, lanciò una vera e propria bordata dichiarando: “Il numero 45 è un grande giocatore, ma non sarà mai esplosivo come lo era il 23.
La provocazione di Anderson e l’insistenza di compagni e tifosi alla fine ebbero la meglio; dalla stagione successiva il numero 23 sarebbe tornato a volare.

 

La seconda avventura di Michael Jordan a Chicago

L’inizio della seconda avventura di Michael a Chicago diede un’ulteriore, energica spinta alla diffusione globale della pallacanestro. L’ampliamento del bacino d’utenza portò ad un notevole incremento delle attività di marketing da parte della NBA. Tra queste ci fu l’introduzione delle cosiddette alternate jerseys, quelle che da noi chiameremmo ‘terze divise’, che avrebbero portato ingenti introiti alle casse della lega.
Il ritrovato numero 23, nell’autunno del 1995, riapparve su una maglia nera a righe rosse (la moda del ‘gessato’ era stata lanciata da Charlotte Hornets e Orlando Magic) che i Chicago Bulls indossarono durante alcune partite fuori casa.

L’arrivo delle nuove divise coincise con l’inizio di una nuova, straordinaria epoca di successi.
I rinnovati Bulls, che oltre a Jordan e all’inseparabile Scottie Pippen potevano contare sul playmaker realizzatore Ron Harper, sul talento cristallino del croato Toni Kukoc (suo malgrado protagonista, nel 1992, di uno degli episodi più celebri dell’estate del Dream Team) e sull’ex ‘Bad Boy’ Dennis Rodman, disputarono una stagione 1995/96 destinata ad entrare nei libri di storia. Il record di 72 vittorie e 10 sconfitte con cui chiusero la regular season, infatti, verrà superato soltanto vent’anni dopo dai Golden State Warriors di Stephen Curry e coach Steve Kerr (quest’ultimo, peraltro, era una preziosissima riserva degli stessi Bulls in quegli anni gloriosi). L’incredibile cavalcata si concluse con il quarto titolo NBA, vinto dopo aver superato in finale i grandi Seattle SuperSonics di Gary Payton e Shawn Kemp.
Questa maglia fu abbandonata nel 1997 dopo l’ennesimo titolo, stavolta nel primo atto della sfida con gli Utah Jazz di ‘Stockton-to-Malone’, ma rimane tuttora una delle casacche più amate di sempre.

 

Michael Jordan  all’All Star Game 1996

10 - ASG 1996

Autentico emblema delle stravaganti maglie di quegli anni, questa divisa segnò il grande ritorno di ‘Air Jordan’ alla partita delle stelle. Il design si rifaceva a quello dell’anno precedente, ispirato dalla location dell’incontro; nel 1995 si giocò a Phoenix, Arizona, mentre la stagione successiva fu la volta di San Antonio, Texas.

A sorpresa, Jordan fu superato nelle votazioni da Grant Hill, protagonista di una fantastica stagione a Detroit, ma l’attesa per il suo rientro era comunque palpabile.
Come ‘primo attore’ di un cast di stelle (da citare Shaquille O’Neal, Penny Hardaway, Grant Hill, Reggie Miller, Scottie Pippen e Patrick Ewing per la Eastern Conference, Stockton-Malone, Payton-Kemp, Drexler-Olajuwon, Charles Barkley e David Robinson per l’Ovest), Michael diede spettacolo, aggiudicandosi il suo secondo All-Star MVP (dopo quello del 1988; farà il tris nel ’98) malgrado in molti ritenessero Shaq meritevole del trofeo, alla luce dei 25 punti e 10 rimbalzi con cui guidò l’Est alla vittoria.
Ad impreziosire quella serata fu la presenza in panchina dei due allenatori che si sarebbero poi scontrati alle Finals: Phil Jackson (Bulls) da una parte, George Karl (Sonics) dall’altra.

 

Oltre il basket: Michael Jordan e Space Jam (1996)

Se agli adulti bastava imbattersi in una qualsiasi partita dei Bulls per innamorarsi perdutamente del basket e del fenomeno in maglia numero 23, i più giovani vennero letteralmente conquistati dal film del 1996 Space Jam.

L’idea fu tanto semplice, quanto vincente: mischiare (da qui il termine Jam, che indicava allo stesso tempo la schiacciata) in un’unica storia i personaggi animati dei Looney Tunes e i grandi cestisti della NBA, primo fra tutti, ovviamente, MJ.
Ecco allora che un gruppo di mostriciattoli alieni sfida Bugs Bunny e soci ad una partita di pallacanestro; in caso di vittoria, gli eroi dei bambini rimarrebbero liberi, altrimenti diventerebbero schiavi degli extraterrestri.
Per riuscire nel loro diabolico intento, i cattivi “rubano il talento” ad alcuni protagonisti (chi più, chi meno, a dire la verità…) della NBA di quegli anni: Charles Barkley, Patrick Ewing, Larry Johnson, Muggsy Bogues e Shawn Bradley.
Per i Looney Tunes l’unica speranza è quella di ingaggiare, suo malgrado, il grande Michael Jordan.
Nonostante ‘Sua Altezza Aerea’ (come lo introduce la voce del mitico Sandro Ciotti nella versione italiana del film) non sia più un giocatore di pallacanestro (la storia è ambientata negli anni del primo ritiro), il fuoriclasse riesce a condurre alla vittoria la Tune Squad.

La pellicola, che nel cast annovera anche Larry Bird e Bill Murray, intreccia la trama a momenti reali (anche se ovviamente romanzati) della vita di Michael; dai tiri in cortile con il padre (ucciso poco prima del ritiro) al ritorno in campo con la maglia dei Bulls. Il tutto accompagnato dalla canzone I Believe I Can Fly di R. Kelly, che diverrà un inno alla carriera di Jordan.
Autentico culto per milioni e milioni di fan, Space Jam ebbe il grande merito di avvicinare un’intera generazione a questo magnifico sport, diventandone a tutti gli effetti il film di riferimento.

 

Chicago Bulls 1997/98: Pippen ai Grizzlies? Sfumato all’ultimo

12 - Alt 1997-98

La divisa alternate dei Bulls venne aggiornata (eliminando le righe rosse) nel 1997, nella turbolenta estate che anticipò l’ultimo ballo (citando un capitolo di Eleven Rings, splendida autobiografia di Phil Jackson) dei grandi dominatori degli Anni Novanta.

La franchigia attraversava un momento di grande instabilità, soprattutto a causa dei pesanti dissapori tra Jackson e il general manager Jerry Krause. Michael Jordan e Scottie Pippen avevano sempre fiancheggiato il loro allenatore, criticando ripetutamente e in maniera più o meno esplicita Krause (ad esempio durante la vicenda-Kukoc).
In quell’estate del 1997, il GM rischiò di far ‘saltare il banco’ proponendo una trade che avrebbe spedito Pippen ai Vancouver Grizzlies in cambio dei diritti per la quarta scelta al draft, con cui sarebbe stato selezionato Tracy McGrady.
Jordan, il cui contratto era giunto al termine, minacciò di ritirarsi qualora l’affare fosse andato in porto. Solo il dietro-front di Krause e un colossale contratto da 33 milioni di dollari convinsero Michael a continuare per un altro anno.

La stagione 1997/98 partì con mille incognite, dovute soprattutto all’imminente scadenza dei contratti di coach Jackson e dei suoi ‘Big Three’ Jordan, Pippen e Rodman.

Malgrado le irrequietezze societarie e la consapevolezza di essere vicini alla fine di un’era, i Bulls si presentarono puntuali all’appuntamento con le NBA Finals, per la rivincita contro Stockton e Malone. A trascinare Chicago un Michael Jordan strepitoso, che fu nominato per la quinta volta in carriera MVP della regular season.Le Finals del 1998, giocate però senza la bellissima maglia nera, sono tuttora scolpite nella memoria di chi ebbe il privilegio di seguirle (come chi scrive). La partita-simbolo dell’epopea di MJ fu la decisiva gara-6. Con i Jazz di coach Jerry Sloan sotto 3-2 nella serie, Chicago voleva chiudere la pratica, onde evitare una complicatissima gara-7 nell’infuocato Delta Center. Con Pippen martoriato dai problemi alla schiena e, dall’altra parte, un Karl Malone inarrestabile, il numero 23 la risolse con una giocata entrata immediatamente nel mito: palla rubata allo stesso ‘Postino’, letale crossover su Bryon Russell e canestro della staffa; l’ultimo atto della magnifica storia di Michael Jordan a Chicago. Questa versione delle alternate jerseys rappresenta un unicum, visto che dalla stagione successiva la scritta “Bulls” verrà sostituita da “Chicago”.

 

Michael Jordan ai Washington Wizards (2001/03)

13 - WAS

Il tiro con cui vinse il sesto titolo in maglia Bulls non fu però l’ultimo atto della carriera da giocatore NBA di Michael Jordan. Nel 2000 era diventato azionista e president of basketball operations dei Washington Wizards, franchigia con un disperato bisogno di rilancio dopo anni bui. L’arrivo di Jordan nello staff dirigenziale non portò i risultati sperati, anzi… L’MJ in versione presidente verrà ricordato soprattutto per aver scelto, con la prima chiamata assoluta al draft 2001, il centro Kwame Brown, che si rivelerà uno dei più grandi flop della storia NBA (a posteriori sono bravi tutti, ma occorre ricordare come, dopo Kwame, vennero scelti Tyson Chandler e Pau Gasol…).

La storia della squadra della capitale, però, cambiò radicalmente nel settembre del 2001. Pochi giorni dopo il drammatico attentato che polverizzò le Torri Gemelle, Jordan annunciò che, “for the love of the game”, sarebbe tornato a giocare. Il suo stipendio sarebbe stato interamente devoluto alle associazioni per le vittime della strage di New York.

Così, a tre anni dal suo secondo ritiro, Jordan riapparve sui parquet della lega, pur senza la storica divisa dei Bulls.
Il nuovo numero 23 dei Wizards dimostrò di poter ancora dire la sua, eccome! Malgrado i 39 anni (compiuti nel febbraio 2002), MJ chiuse la prima stagione della sua nuova avventura a 24.3 punti di media. Nei primi mesi del comeback mise la sua prestigiosa firma su una prestazione da 51 punti (contro Charlotte) e su una da 45 (New Jersey). Gli stessi Nets se ne vedranno rifilare 43 il 21 febbraio 2003, pochi giorni dopo il quarantesimo compleanno dell’Alieno (che diverrà l’unico quarantenne a segnare 40 o più punti in NBA).

La stagione 2002/2003 fu quella del definitivo ritiro dal basket giocato. Nonostante i Wizards non fossero una squadra da playoff, nel biennio 2001/2003 divennero la squadra più popolare al mondo. Il pubblico gremiva i palazzetti per vedere dal vivo il grande MJ e per tributargli le ultime, grandi ovazioni.
Il 16 aprile 2003, a casa dei Sixers di Iverson (quello del famoso crossover…), Michael Jordan giocò l’ultima partita della sua vita, chiusa con i 13 punti che gli permisero di raggiungere i 20 di media in carriera. Quando uscì dal campo, la partita fu interrotta per diversi minuti, e dagli spalti del First Union Center di Philadelphia si alzò, assordante, il coro “We want Mike! We want Mike!”.

 

L’All Star Game 2003: Jordan contro Kobe

14 - ASG 2003

Nei due anni da giocatore dei Wizards, Jordan fece (ovviamente) ritorno all’All Star Game.
Quella del 2003, era risaputo, sarebbe stata la sua ultima apparizione alla partita delle stelle. Per questo motivo, la serata di Atlanta fu organizzata come una grande festa in onore del migliore di tutti.
Dopo alcune edizioni in cui i giocatori avevano vestito le casacche delle franchigie di appartenenza, quell’anno si decise di riprendere le divise del 1988, anno in cui MJ vinse il primo dei suoi tre All-Star MVP.

L’avvicinamento al tradizionale appuntamento di febbraio, però, vide profilarsi all’orizzonte un ‘caso diplomatico’; per il ruolo di guardia ad Est, ad aggiudicarsi il maggior numero di voti erano state le tre stelle più brillanti della lega: Tracy McGrady, Allen Iverson e Vince Carter. Quella, però, doveva essere la serata di Michael Jordan, per cui alla fine Carter, più o meno di buon grado, cedette il suo posto in quintetto al numero 23 (di cui ‘Vincredible’ aveva seguito le orme a North Carolina).
Ironia della sorte, sulla panchina della Eastern Conference in quel di Atlanta sedette…Isiah Thomas!
Lo storico nemico di MJ, infatti, era il capo-allenatore degli Indiana Pacers, squadra con il miglior record ad Est in quel momento della stagione. Perfino Thomas, tuttavia, non lesinò strette di mano e pacche sulle spalle al rivale di sempre.
Durante l’intervallo lungo della partita, Mariah Carey fu protagonista di una memorabile esecuzione della canzone Hero, che precedette il discorso di commiato di Jordan di fronte al pubblico di Atlanta.

Ciò che successe invece a livello sportivo meriterebbe una storia a sé, ma si può brevemente riassumere; la grande rimonta dell’Est (grazie a dei fantastici Iverson e T-Mac) fu ad un passo dal coronarsi all’overtime, con il canestro decisivo proprio di MJ. A ‘rovinare la festa’, però, ci pensò Kobe Bryant (visto dai più come l’erede designato di ‘His Airness’), che pareggiò in conti dalla lunetta. Al secondo supplementare, la Western Conference trionfò grazie ad uno stratosferico Kevin Garnett, giustamente premiato come MVP dell’incontro.

Tutti gli occhi (lucidi), però, erano per Michael Jordan, che di lì a poco si sarebbe tolto per sempre la maglia numero 23 per consegnarla in eterno alla leggenda.

 

You may also like

Lascia un commento