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NBA Jersey Stories– Heat e Hornets, Inglorious Bastards

di Stefano Belli
Da sinistra: Larry Johnson, Muggsy Bogues, Alonzo Mourning

Da sinistra: Larry Johnson, Muggsy Bogues, Alonzo Mourning

E’ indubbiamente bello decantare le gesta di squadre invincibili e di fuoriclasse che hanno vinto tutto.
Quella che segue, però, è una storia (anzi, due) di perdenti: quella dei ‘bastardi senza gloria’ degli Anni ’90.
Miami Heat e Charlotte Hornets non vinsero niente nei loro primi anni di vita, e nemmeno ci andarono vicino; non si potevano neanche immaginare i tempi di LeBron James (purtroppo) o dei Bobcats (per fortuna).
Le prime maglie indossate dalle due formazioni non furono certo tra le più sgargianti di quel periodo ‘fantasioso’, ma restano tuttora un inconfondibile simbolo di quegli anni ruggenti.
Quelle divise accompagnarono la nascita di due franchigie che, grazie a giocatori indimenticabili, diventarono presto un cult.

Entrambe le squadre videro la luce con l’espansione del 1987, che portò nella NBA anche i Minnesota Timberwolves e gli Orlando Magic. Come sempre in questi casi, fu indetto un sondaggio in ciascuna delle due città per scegliere il nome da adottare. A Charlotte, Hornets ebbe la meglio su Spirits, mentre in Florida si arrivò ad un passo dal chiamare la nuova squadra Miami Vice, come la popolarissima serie TV di quel periodo.
Il copione dei cosiddetti expansion teams non fece eccezioni in quel 1988, anno in cui Heat e Hornets calcarono per la prima volta i parquet della principale lega americana. Sconfitte a non finire e, nonostante ciò, arene gremite e fan entusiasti accompagnarono i primi passi delle neonate franchigie.

Manute Bol (231 cm) e Muggsy Bogues (160 cm), la strana coppia dei Washington Bullets

Manute Bol (231 cm) e Muggsy Bogues (160 cm), la strana coppia dei Washington Bullets

Durante l’Expasion Draft, Charlotte aveva selezionato il primo giocatore ‘di culto’ della nostra storia: Tyrone Curtis Bogues, meglio conosciuto con il soprannome “Muggsy”.
Segnato, come tanti nella NBA di ieri e di oggi, da un’infanzia difficile nei sobborghi di Baltimore (Maryland), Bogues era stato scelto al draft 1987 dai Washington Bullets. Nella stagione da rookie era finito su tutte le copertine per una curiosa coincidenza: il giocatore più basso della lega (Muggsy, 160 cm) era compagno di squadra di quello più alto (Manute Bol, 231 cm).
Nel 1996 il piccolo, grande Muggsy sarà tra i protagonisti di Space Jam, film di riferimento per tutti gli appassionati di basket.

L’unico vero highlight dei primi anni degli Hornets fu la vittoria contro i Chicago Bulls del 23 dicembre 1988, in quella che fu la prima partita da professionista di Michael Jordan nella ‘sua’ North Carolina.

Nel frattempo, in Florida, gli Heat abbattevano un record negativo dopo l’altro. Inseriti inopinatamente nella Western Conference, malgrado Miami fosse indubbiamente ad Est (gli avversari più vicini erano gli Houston Rockets, a circa 1900 km di distanza!), gli uomini di coach Ron Rothstein persero le prime 17 partite della regular season, tra cui un memorabile 138-91 subito per mano dei Los Angeles Lakers versione ‘Showtime’.

Al termine della (tormentata) stagione inaugurale, tramite il draft arrivò Glen Rice, autentica macchina da punti in uscita da Michigan University.

Glen Rice in maglia Heat

Glen Rice in maglia Heat

Con l’approdo ad Ovest dei Timberwolves, gli Heat furono spostati nella Eastern Conference.
Grazie ai canestri di Rice e alla crescita dei giovani Rony Seikaly e Sherman Douglas (giocatore che passerà per tutte le peggiori squadre degli Anni ’90), il numero di vittorie aumentò nelle stagioni successive, non abbastanza però da evitare le dimissioni di Rothstein, sostituito da Kevin Loughery.

Le sorti di entrambe le franchigie ebbero una scossa con il draft 1991.
Con l’ottava chiamata, Miami selezionò Steve Smith, guardia di grande talento proveniente da Michigan State.
Smith e Rice guidarono i giovani e rampanti Heat ai primi playoff della loro storia, dove furono però abbattuti dai Bulls di Jordan, in corsa per il secondo titolo consecutivo.
Gli Hornets, con la prima scelta assoluta, misero le mani su Larry Johnson. Ala forte dotata di un fisico da culturista, ‘Grandmama’ (soprannome derivato da una campagna pubblicitaria della Converse che lo vedeva protagonista) si impose subito come uno dei migliori prospetti della lega, vincendo inoltre il premio di Rookie Of The Year. L’ottimo impatto di ‘LJ’ non bastò comunque a Charlotte per raggiungere i playoff. Gli Hornets si consolarono con l’assegnazione della seconda pick al draft 1992.
Dopo che i Magic ebbero chiamato Shaquille O’Neal, la squadra della ‘Queen City’ scelse l’ex centro di Georgetown University, Alonzo Mourning.

Alonzo Mourning (#33) e Larry Johnson (#2), il fenomenale frontcourt degli Hornets

Alonzo Mourning (#33) e Larry Johnson (#2), il fenomenale frontcourt degli Hornets

Con l’arrivo di ‘Zo’, il frontcourt degli Hornets divenne uno dei più temibili dell’intera lega. La squadra visse una stagione da incorniciare, arrivando per la prima volta ai playoff nel 1993.
In una delle ultime partite di regular season, Muggsy Bogues fece una delle giocate più celebri della sua carriera stoppando nientemeno che Patrick Ewing, centro dei New York Knicks alto ben 53 centimetri più di lui.
Al primo turno Charlotte superò a sorpresa i Boston Celtics, con la decisiva gara-4 vinta da un canestro allo scadere di Mourning. La serie successiva fu contro i Knicks, guidati in panchina da Pat Riley. Ewing ebbe modo di ‘vendicarsi’ della stoppata di Bogues vincendo l’epico scontro fra grandi centri (uno dei tanti in quegli anni) con ‘Zo’ e conducendo i suoi alla vittoria.
Mourning e Johnson dovettero fare i conti con alcuni infortuni, che pregiudicarono la corsa degli Hornets alla post-season per la stagione successiva. Unica nota lieta, il premio di Sixth Man Of The Year vinto da Dell Curry (il cui figlioletto Steph, nato solamente sei anni prima, farà decisamente parlare di sé più avanti).

Ai playoff arrivarono invece gli Heat, trascinati da Steve Smith e da un Glen Rice in stato di grazia, ormai pronto a diventare un All-Star. Gli Atlanta Hawks di Dominique Wilkins e Mookie Blaylock, però, li eliminarono in cinque partite al primo turno.
Poco dopo l’inizio della stagione 1994/95, una criticatissima trade spedì Smith ad Atlanta in cambio del super veterano (si ritirerà a 44 anni) Kevin Willis.
Divenuto il leader unico della squadra, Rice si scatenò; 22,3 punti di media, career-high di 56 contro Orlando e vittoria nella gara di tiro da tre all’All Star Weekend. Nonostante questo exploit, Miami non riuscì a riconquistare la post-season. A stagione in corso, Loughery fu sostituito da Alvin Gentry, che ‘traghettò’ la squadra verso l’inevitabile rivoluzione.

Anche a Charlotte stava per finire un’epoca. Il 1994/95, fu la miglior stagione di sempre per la franchigia, con Larry Johnson e Alonzo Mourning, ormai fra le top star NBA, chiamati insieme alla Gara delle Stelle. Le 50 vittorie, però, vennero cancellate dai Chicago Bulls del rientrante Jordan, che spazzarono via gli Hornets con un secco 3-1.

I destini delle due franchigie, legati indissolubilmente fin dalla contemporanea formazione, tornarono ad incrociarsi nell’estate del 1995.
La miccia venne accesa dal nuovo proprietario degli Heat, Micky Arison (figlio di Ted, uno dei fondatori del team), il quale chiamò nientemeno che il ‘guru’ Pat Riley.
Già pluri-campione NBA con i leggendari Lakers e finalista con i New York Knicks nel 1994, Riley assunse il doppio ruolo di allenatore e presidente. Una volta acquisiti i pieni poteri, Pat (accolto con una parata per le strade di Miami) organizzò una clamorosa trade proprio con gli Hornets: Glen Rice finì in North Carolina, mentre a South Beach sbarcò Alonzo Mourning. Per entrambe le franchigie stava per iniziare una nuova era.

Tim Hardaway (#10) e Alonzo Mourning (#33)

Tim Hardaway (#10) e Alonzo Mourning (#33)

Guidati dalla loro nuova star, gli Heat iniziarono la stagione 1995/96 a suon di vittorie. Un inaspettato calo di risultati, però, convinse Riley ad apportare ulteriori modifiche al roster. La più importante fu l’aggiunta di Tim Hardaway, ex stella dei Golden State Warriors. Nella Baia, Tim era stato il ‘motore’ del celeberrimo trio conosciuto come ‘Run TMC’ (Tim Hardaway – Mitch RchmondChris Mullin), nonché All-Star per tre stagioni consecutive.
Hardaway e Mourning divennero ben presto una delle migliori coppie playmaker-centro della lega e, con una leggenda come Riley in panchina, la popolarità della squadra salì alle stelle.
Le vittorie tornarono, e gli Heat raggiunsero i playoff con l’ottava testa di serie ad Est. Alla numero uno, però, c’erano i Bulls delle 72 vittorie, che umiliarono Miami al primo turno.

Malgrado la batosta, era nata una contender. Allo stesso modo, si era accesa la rivalità tra Heat e Bulls.
Il piano di Riley per contrastare l’invincibile armata di Phil Jackson (suo storico rivale) era quello di costruire una squadra tosta e ‘combattiva’, sul modello dei suoi Knicks, arrivati ad un passo dal titolo nel 1994.
Per irrobustire ulteriormente il roster ingaggiò giocatori come Dan Majerle, PJ Brown, Jamal Mashburn e Voshon Lenard. Quella formazione, che includeva anche la leggenda virtussina Sasha Danilovic, lasciò a bocca aperta l’intera NBA, chiudendo la stagione con il miglior record di sempre (battuto solamente nel 2013 da LeBron James e compagni): 61 vittorie e 21 sconfitte. Molti di quei successi arrivarono in trasferta, facendo guadagnare agli Heat il soprannome di ‘Road Warriors’.
Superati gli Orlando Magic al primo turno, Riley (nel frattempo nominato Coach Of The Year) si trovò di fronte i vecchi allievi di New York.

Dennis Rodman dei Chicago Bulls a muso duro con Mourning

Dennis Rodman dei Chicago Bulls a muso duro con Mourning

Fu una serie durissima, caratterizzata da risse e trash talking, ma alla fine Miami la spuntò, guadagnandosi la tanta attesa rivincita con Chicago. In palio, questa volta, ci sarebbero state le NBA Finals.
Se contro i Knicks era stata una vera e propria battaglia, contro i Bulls non andò diversamente. L’altissima tensione tra le due formazioni portò a diversi scontri, che spesso ebbero come protagonisti Alonzo Mourning e Dennis Rodman.

Come facilmente pronosticabile, l’innalzamento del livello agonistico si rivelò uno stimolo in più per Jordan. Il numero 23 giocò una delle migliori serie in carriera, mandando ancora una volta a casa gli Heat (4-1) con una spaventosa media di 30,2 punti a partita.

A Charlotte, nel frattempo, gli Hornets erano diventati a tutti gli effetti la squadra di Glen Rice, per la prima volta All-Star nel 1996. Le grandi prestazioni del numero 41 gli valsero il ruolo di leader assoluto, a discapito di Larry Johnson.
Al termine di una stagione deludente e senza playoff, ‘Grandmama’ fu mandato ai Knicks, in cambio dell’ala Anthony Mason.
Non fu l’unico cambiamento in quella off-season. Arrivarono un nuovo allenatore (Dave Cowens, ex star dei Boston Celtics) e il centro Vlade Divac. Il serbo si rivelò un ottimo innesto, il problema fu che per averlo era stata sacrificato un ragazzo chiamato con la tredicesima scelta al draft 1996; il suo nome era Kobe Bryant

Malgrado la rinuncia al futuro Black Mamba, che tormenterà per sempre i loro tifosi, gli Hornets riuscirono a tornare ai playoff.
Ancora una volta il trascinatore fu Glen Rice, protagonista di una stagione grandiosa (impreziosita dal premio di All Star Game MVP).
I Knicks di quegli anni, però, erano un ostacolo troppo arduo da superare; Patrick Ewing e compagni distrussero Charlotte con un perentorio 3-0. D’altronde stiamo pur sempre parlando degli ‘Inglorious Bastards’…

Gli Hornets erano senza dubbio un’ottima squadra, ma capitata nell’epoca sbagliata. Nel 1998 fecero registrare un ottimo record (51-31), superarono addirittura il primo turno (contro Atlanta), ma gli avversari successivi furono Jordan e i Bulls; inutile chiedersi come finì…
Nel frattempo, Rice era entrato nel mirino dei Los Angeles Lakers, che vedevano in lui il tassello mancante per arrivare al titolo. Il 10 marzo del 1999, Glen raggiunse il ‘quasi-Hornet’ Kobe Bryant in California, in una trade che portò a Charlotte Elden Campbell ed Eddie Jones.
La partenza del loro go-to-guy, che seguiva di qualche mese quella di Muggsy Bogues, fu l’inizio della fine: La versione storica degli Hornets non c’era più.

Baron Davis

Baron Davis

Con l’arrivo della giovane star Baron Davis (terza scelta al draft 1999), Charlotte rimase stabilmente in zona playoff (di vincere, ovviamente, non se ne parlava) anche nelle stagioni successive.
Più che sul campo, i problemi grossi erano quelli societari. Il proprietario George Shinn fu travolto da un’accusa di violenza sessuale che sfociò in un processo penale. Lo scandalo, unito alla già scarsa popolarità di Shinn (reo di aver ‘svenduto’ tutte le superstar della squadra, da Mourning a Rice), scatenò l’ira della città. I tifosi chiesero a gran voce il suo abbandono, quindi iniziarono a disertare gli incontri casalinghi degli Hornets. Poco prima del termine della stagione 2001/2002, venne annunciato il trasferimento della franchigia a New Orleans.

Mentre a Charlotte iniziava il declino, i ‘gemelli’ di Miami continuavano la corsa per il dominio della Eastern Conference.
I playoff del 1998 iniziarono con l’ennesima sfida tra Heat e Knicks, ed incredibilmente New York (testa di serie numero 7) ebbe la meglio. L’episodio chiave della serie fu l’ennesima rissa, questa volta fra i due ex compagni Alonzo Mourning e Larry Johnson, che portò alla squalifica di ‘Zo’ per la decisiva gara-5.

Andò ancora peggio l’anno successivo.
Il ritiro di Jordan, unito alle partenze di Pippen, Rodman e Jackson, aveva chiuso un ciclo a Chicago, dando nuove speranze agli altri top team dell’Est, Heat su tutti.
Nella stagione breve del lockout, Miami, trascinata da uno strepitoso Mourning (Defensive Player Of The Year e secondo classificato – dietro a Karl Malone – nelle votazioni per l’MVP stagionale), ottenne il miglior record della Conference.
Ancora una volta, la strada degli uomini di Riley incrociò quella dei New York Knicks, che erano riusciti a strappare quasi per miracolo l’ottavo posto disponibile.
Tra le due ‘nemiche giurate’ scaturì l’ennesima battaglia, che venne risolta nella decisiva gara-5. Con gli Heat avanti di un punto, Allan Houston segnò il canestro più importante della sua carriera:

L’eliminazione di Miami fu uno dei maggiori upset (vittorie a sorpresa di squadre nettamente sfavorite) della storia della NBA. New York raggiunse le Finals (prima ed unica squadra a riuscirci partendo dall’ottavo piazzamento), mentre la cocente delusione diede il via ad una rivoluzione in casa Heat.
In concomitanza con l’inaugurazione dell’American Airlines Arena, il nuovo millennio venne accolto con l’abbandono delle storiche divise. Una versione rimodernata delle maglie (in uso ancora oggi) sostituì quella che aveva seguito la franchigia nella prima, indimenticabile parte della sua storia.

'Zo', con la nuova maglia degli Heat, stringe il titolo NBA vinto nel 2006

‘Zo’, con la nuova maglia degli Heat, stringe il titolo NBA vinto nel 2006

I percorsi delle due squadre, proseguiti su binari paralleli fin dagli albori, presero quindi direzioni diverse.

Gli Charlotte Hornets fecero i conti con infinite peripezie, tra New Orleans Hornets, Charlotte Bobcats e New Orleans Pelicans. Nel 2014 il nuovo proprietario Michael Jordan (proprio lui) riportò il nome Hornets nella ‘Queen City’, ridando vita ad una franchigia tanto ‘inglorious’ quanto amata.

I Miami Heat attraversarono un periodo nero, costellato di sconfitte e segnato, tra l’altro, dai gravi problemi di salute che per poco non costarono il ritiro (se non qualcosa di peggio) ad Alonzo Mourning.
L’arrivo di Dwyane Wade, nel 2003, diede inizio alla rinascita. Guidati da ‘Flash’ e da Shaquille O’Neal, gli Heat regalarono al loro storico leader ‘Zo’ (tornato miracolosamente a giocare) un inaspettato titolo nel 2006.

Anche Glen Rice, l’altra stella condivisa dalle due squadre del nostro racconto, diventò campione NBA (nel 2000 con i Lakers).
Nessuno di questi grandi giocatori, però, riuscì a vincere con gli ‘Inglorious Bastards’ degli Anni ’90.
Due franchigie nate insieme e accompagnate per un intero decennio dallo stesso destino: essere le squadre sbagliate nel momento sbagliato.

Il mitico ‘pigiamone’ non fu più ripreso dagli Hornets, dopo il loro ritorno a Charlotte. Le maglie retro di Miami, invece, trovarono nuova gloria negli anni di LeBron James e dei ‘Big Three’, quando la squadra di un tempo fu omaggiata nel corso delle cosiddette “Hardwood Classics Nights”.

Da sinistra: Ray Allen, Dwyane Wade e LeBron James con le divise storiche dei Miami Heat

Da sinistra: Ray Allen, Dwyane Wade e LeBron James con le divise storiche dei Miami Heat

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