Anche la NBA inizia a pianificare la sua fase 2, quella in cui la lega tenterà di tracciare tempi e modi per un ritorno in campo in estate per dare una conclusione alla stagione 2019\20, ferma ormai da 50 giorni.
Le sfide logistiche restano tante, e non legate solo alla possibilità di organizzare una serie di partite in una location specifica ma sfide anche dal punto di vista sanitario e della sicurezza, come la disponibilità su larga scala di test affidabili e rapidi per la diagnosi del coronavirus Sars-CoV2, la loro applicabilità ad un numero imponente di persone tra atleti, staff, operatori e media. I costi che un’operazione del genere implicherà sono un altro problema fondamentale, che va ad aggiungersi alle mancate entrate per NBA e squadre in quasi due mesi di lockdown e zero minuti di basket giocato.
Una road map che permetta alla NBA di completare la stagione dovrà inoltre tenere conto delle implicazioni “laterali” sul calendario classico: il draft e le sessioni di colloqui e provini (qualora possibili) con i futuri giocatori, la free agency ed il mercato, l’inizio della stagione 2020\21 che potrebbe persino essere rinviato a dicembre 2020. Le negoziazioni finanziarie tra NBA e network TV attorno ad una schedule per forza di cose “devastata” dalla sospensione e dall’emergenza sanitaria, e quelle tra NBA e Associazione Giocatori, su entità e durata delle trattenute degli stipendi degli atleti stabilite per cause di forza maggiore dal contratto collettivo.
NBA, la fase 2: corsa contro il tempo per gli allenamenti
Maggio sarà il mese decisivo per capire se la stagione NBA potrà ripartire, e in che forma. I giocatori avranno bisogno di almeno 3-4 settimane di allenamenti completi per tornare in campo ad un livello di forma accettabile, e ben pochi dei 50 stati USA entreranno effettivamente nella loro “fase 2” prima di metà maggio (il Massachussets ha ad esempio annunciato che le misure di contenimento resteranno in vigore fino al 18): questo implica che saranno pochi i giocatori che prima della terza settimana di maggio potranno tornare, con tutte le precauzioni del caso, in palestra.
Prima dell’8 maggio, nessuna squadra sarà autorizzata inoltre a riaprire le proprie facility, ed i giocatori sono stati diffidati dal rivolgersi ad altri centri di allenamento per riprendere l’attività, per ovvi motivi sanitari e di sicurezza. Dei 50 stati dell’Unione, ad oggi solo Florida e Virginia hanno iniziato a riaprire parte delle attività chiuse in aprile, la Georgia si aggiungerà nei prossimi giorni (13 maggio la deadline per la fine del lockdown), ma l’intenzione della NBA è quella di non creare disparità tra le 30 squadre, dando ad alcune la possibilità di iniziare prima di altre la preparazione.
La NBA tra Las Vegas e Disney World
Le ipotesi tecnicamente fattibili di location che potrebbero ospitare la fase finale della stagione sono sostanzialmente 2, sebbene non esista oggi alcun supporto ufficiale della NBA: Las Vegas con i suoi alberghi e casino, ed i 2 impianti, il Thomas & Mack Center della UNLV ed il Cox Pavilion, dove tenere le gare, ed il maxi resort di Disney World, il Walt Disney World Resort di Orlando, Florida, con 12 campi da Basket, oltre 5000mila stanze d’hotel potenzialmente disponibili, ed un’area già predisposta per lo spettacolo e la trasmissione TV degli eventi, anche tramite camere di ripresa interamente robotizzate e manovrabili da remoto.
Racchiudere una macchina organizzativa come quella NBA in una “bolla“, come spesso indicata con un’immagine efficace, richiederebbe una mole impressionante di test diagnostici rapidi. 15mila il numero di singoli test stimati per tutta la durata dell’evento, un numero che potrebbe diventare presto disponibile. La NBA sarà però in questo senso particolarmente attenta all’immagine, e non permetterà mai che i suoi atleti milionari possano avere accesso privilegiato ai test se questi non saranno prima estesi su larga scala alla popolazione negli Stati Uniti, che oggi contano oltre 60mila decessi a causa del virus.
Per rintuzzare anonime voci “disfattiste” di executive che premerebbero per una cancellazione della stagione, preoccupati dal peso schiacciante delle perdite fin qui sostenute, e dei futuri costi da affrontare per rimettere in sesto la macchina, è sceso in campo persino il Re, LeBron James, con la più classica delle “invasioni di campo”. LeBron non ha alcuna voce decisionale in capitolo, ovviamente, ma il suo parere è destinato a creare consensi. La decisione ultima sulla ripresa del campionato l’avranno, pandemia permettendo, Adam Silver e il board of governors della NBA.
Silver sarà solo uno dei tanti leader mondiali chiamati a decisioni difficili, da prendere sotto pressione. E giunti al mese di maggio, il tempo inizia a stringere.