C’è chi definisce la NBA “un circo”, chi la ritiene noiosa e scontata, chi addirittura “l’antibasket”. Eppure, la febbre per l’inizio della stagione 2017/18 è più alta che mai, e non risparmia nemmeno i critici. Come sempre in questo periodo, gli appassionati di pallacanestro contano i giorni, le ore che mancano alla ripresa delle operazioni del campionato americano, che riaccenderà i riflettori stanotte dopo una pausa leggermente più breve del solito, ma comunque lunghissima. Come ogni anno, ci sono parecchi motivi per seguire con estremo interesse la nuova stagione. In questo pezzo, come ormai da tradizione, abbiamo analizzato i primi 10. Che lo spettacolo abbia inizio!
1 – L’alba di una dinastia

Da sinistra: Kaly Thompson, Draymond Green, Kevin Durant e Stephen Curry. In arrivo un’altra stagione da dominatori?
“Vogliamo diventare come i Chicago Bulls degli Anni ‘90” ha dichiarato di recente Klay Thompson. Fino a qualche anno fa, tale affermazione avrebbe comportato sonore risate, se non reazioni degne della Signorina Silvani dei tempi d’oro. Nel 2017, invece, i proclami del numero 11 sono tutt’altro che campati per aria. Negli ultimi anni, il triumvirato Joe Lacob – Bob Myers – Mark Jackson ha gettato le basi per quella che somiglia sempre di più a una dinastia. Con il reverendo in panchina sono esplosi Stephen Curry e lo stesso Thompson, che hanno tirato fuori i Golden State Warriors da un anonimato quasi perenne. Poi è arrivato Steve Kerr a mettere insieme gli ultimi ingranaggi di una macchina perfetta. Dal 2014 ad oggi, gli Warriors hanno rivoluzionato il gioco del basket e, a differenza di altri precursori (come i Phoenix Suns di Mike D’Antoni, per esempio), lo hanno fatto vincendo. Anzi, stra-vincendo. Due titoli in tre anni, inframmezzati dalla stagione in cui è crollato un record all’apparenza inavvicinabile: quello dei grandi Bulls, per l’appunto.
Mentre in campo i ragazzi della Baia dominavano, negli uffici dirigenziali si muovevano le pedine per far sì che tale dominio potesse continuare negli anni a venire. Ecco allora i contratti a prezzi ‘di saldo’ fatti firmare a Curry (44 milioni in 4 anni nel 2012, quando in pochi prevedevano ciò che sarebbe diventato), Thompson (68 in 4 stagioni nel 2015) e Draymond Green (82 in 5 anni, sempre nel 2015), le aggiunte di preziosi veterani a compensi ben più ridotti e la ciliegina sulla torta dell’acquisizione di Kevin Durant, probabilmente il più grande talento puro degli ultimi vent’anni. Dopo l’ ‘incidente di percorso’ del 2016, quando un immenso LeBron James (e un clamoroso harakiri dei californiani), regalò il titolo ai Cavs, gli ultimi playoff hanno messo in evidenza la dura realtà; da una parte Golden State, dall’altra le altre 29 franchigie che si affannano a tenere il passo.
La presenza di così tante star nel roster aveva fatto sorgere parecchi dubbi, di carattere prima tecnico (la presunta incompatibilità tra ‘maschi alfa’), poi economico; la vittoriosa cavalcata del 2017 e il rinnovo con lo ‘sconto’ di KD li hanno spazzati via tutti. Quelli che si presentano al via della stagione 2017/18 sono degli Warriors giovani e affamati di nuovi successi. Le manovre di mercato hanno rinforzato la concorrenza, ma al momento è difficile individuare una credibile minaccia per i ‘Dubs’. Se in California riuscissero a non rovinare il ‘giocattolo’, la stagione che sta per cominciare potrebbe rendere ‘ufficiale’ il fatto che siamo di fronte a una dinastia.
2 – L’ultimo ballo dei Cavs

Dwyane Wade (#9) e LeBron James (#23), di nuovo insieme dopo i fasti di Miami
A proposito di concorrenza. i Cleveland Cavaliers, ormai storici rivali degli Warriors, potrebbero essere molto vicini alla fine di un ciclo. Kyrie Irving deve averlo intuito prima di tutti visto che, dopo le finali perse, si è affrettato a chiedere la cessione. D’altronde, le premesse per un’imminente svolta ci sono tutte, e sono tutte riconducibili ad una sola persona; LeBron James, ovvero LA franchigia, è all’ultimo anno di contratto. Dopo aver portato il titolo in Ohio nel 2016 (“Cleveland…this is for you!”), un suo nuovo addio verrebbe certamente ‘perdonato’ da società e tifosi. Sebbene sia ancora il padrone incontrastato della lega, gli anni stanno per diventare 33. Il Re vuole vincere ancora e, qualora le prossime Finals (così come le scorse) dovessero sentenziare che con i Cavs non è più possibile, la tentazione di un’ultima, grande avventura altrove potrebbe diventare molto forte.
Da qui a luglio 2018, però, c’è di mezzo una stagione in cui provare in tutti i modi a giocare un altro ‘scherzetto’ a Steph Curry e compagni. Il numero 23 e la sua squadra sono in piena modalità ‘all in’; ora o mai più. Perso Irving, LeBron si ritrova al suo fianco un ‘supporting cast’ inedito e mai così ricco. Oltre ai ‘soliti’ Kevin Love, J.R. Smith, Tristan Thompson, Iman Shumpert e Kyle Korver sono arrivati Jae Crowder, Jeff Green e Cedi Osman. Soprattutto, ci saranno Dwyane Wade, Derrick Rose e Isaiah Thomas. Tutte pedine perfette per la caccia al titolo, ma tutti sotto contratto fino a quel fatidico primo luglio.
Avere a disposizione il miglior giocatore al mondo, perlopiù con una gran fame di vittorie, conferma Cleveland come la principale pretendente al trono degli Warriors, ma la strada verso il quarto (e ultimo?) atto della ‘saga’ sarà molto faticosa. Le maggiori incognite sono rappresentate proprio dai nuovi arrivi. Quando tornerà Isaiah Thomas dall’infortunio all’anca? Soprattutto: sarà in grado di ripetere le meraviglie messe in mostra a Boston, dove aveva un’intera città ai suoi piedi? E ancora: quali versioni di Wade e Rose si presenteranno alla Quicken Loans Arena?
Il reale contributo dei nuovi innesti sarà il vero ago della bilancia, visto che non sempre King James ha potuto contare sui suoi fidi ‘scudieri’ nei momenti decisivi (i vari Smith, Thompson, Shumpert e Korver sono letteralmente scomparsi per gran parte dell’ultima serie finale). Scudieri che, peraltro, sono gli unici ad avere la certezza (trade permettendo) di rimanere in Ohio anche il prossimo anno. Comunque si concluda questo 2017/18, la sensazione è che sulla franchigia aleggi l’ombra nera di una svolta epocale. Che siate tifosi o meno, assaporate ogni secondo di quella che potrebbe essere una stagione storica, l’ultima del grande condottiero nella città che lo ha reso (e che ha reso) immortale
3– I nuovi Celtics

I nuovi ‘Big Three’ dei Celtics. Da sinistra: Kyrie Irving, Gordon Hayward e Al Horford
Quella appena conclusa è stata una off-season ricca di grandi cambiamenti. Tra le franchigie maggiormente rinnovate ci sono i Boston Celtics, che avranno parecchi riflettori puntati addosso in questo 2017/18. La finale di Conference persa contro Cleveland ha chiuso di fatto un’epoca, quella della ricostruzione post-‘Big Three’. Molti protagonisti di questa fase di transizione sono stati ‘sacrificati’ al fine ultimo, ovvero tornare a competere per il titolo NBA. Alcune sono state rinunce dolorose (Avery Bradley, Jae Crowder, Kelly Olynyk), una in particolare è stata molto dolorosa. In soli due anni (era arrivato a Boston nel 2015, insieme a Gigi Datome), Isaiah Thomas era diventato l’uomo-simbolo dei Celtics, risvegliando quel ‘Celtic Pride’ che al TD Garden sembrava sopito ormai da troppo tempo. Il piccoletto da Tacoma aveva offerto anima e corpo alla causa, ricevendo in cambio due convocazioni all’All Star Game e un’inclusione nella lista dei candidati MVP per il 2016/17. Eppure, l’imminente scadenza del suo contratto (2018) rappresentava un enorme cruccio per Danny Ainge e soci. Non solo per via dell’infortunio all’anca che lo aveva costretto ad abbandonare la battaglia contro i Cavs agli scorsi playoff, ma soprattutto per la consapevolezza che, con lui come leader (il suo rinnovo avrebbe quasi certamente comportato il massimo salariale), non si sarebbe mai potuti arrivare a compiere l’ultimo passo, quello che porta dritti alle Finals. Ecco allora la rivoluzione.
Thomas, Crowder, Ante Zizic e la preziosissima prima scelta 2018 di Brooklyn sono stati utilizzati come pedine di scambio per ottenere Kyrie Irving, togliendolo proprio ai più pericolosi rivali. Per il nuovo numero 11 biancoverde (il suo storico 2 è stato ritirato in onore di Red Auerbach, secondo Celtic più importante di sempre – dopo il fondatore Walter Brown) la prossima stagione rappresenta un crocevia fondamentale. Prima giovanissimo leader di una squadra perdente, poi primo ‘scudiero’ di Sua Maestà LeBron nella caccia all’anello, Irving ha deciso di ‘emanciparsi’. A Boston il leader sarà lui, almeno secondo il copione scritto da Ainge e soci. Se il talento è fuori discussione, la capacità di essere il giocatore di riferimento di una squadra da titolo è ancora tutta da dimostrare.
Oltre che sul nuovo playmaker, coach Brad Stevens potrà contare sul suo vecchio pupillo Gordon Hayward, già allenato ai tempi di Butler University. Come per Kyrie, anche per l’ex stella degli Utah Jazz questo 2017/18 sarà una sorta di ‘esame di maturità’. Hayward è esploso in un contesto molto particolare, quanto più lontano possibile dalle luci dei riflettori. Se riuscisse a confermarsi (se non a crescere ulteriormente), il suo ingaggio potrebbe rivelarsi la vera chiave di volta della storia recente dei Celtics. Intorno alle due nuove star c’è un roster tutto da collaudare (soprattutto in fase difensiva, dopo le partenze di Bradley e Crowder) e forse per abbracciare il Larry O’Brien Trophy per la diciottesima volta ci vorranno ancora tempo e lavoro. A Boston, però, il dado è stato tratto; questo 2017/18 potrebbe essere l’inizio di un nuovo, trionfale ciclo.
4 – Arrivano i Super-Team

Carmelo Anthony, nuova stella dei Thunder, cerca di contrastare Chris Paul, grande rinforzo in casa Rockets
L’inarrestabile ascesa dei Golden State Warriors ha fissato l’asticella ad un livello mai raggiunto. Anche solo per provare a competere con la truppa di Steve Kerr, gli altri top team hanno dovuto ricorrere a misure straordinarie. Se Cleveland ha puntato tutte le sue fiches su ex-superstar come Rose e Wade e Boston ha scelto la coppia Irving-Hayward, nella Western Conference ci sono due squadre che hanno optato per delle soluzioni quasi ‘estreme’. Houston Rockets e Oklahoma City Thunder hanno costruito dei veri e propri ‘Super-Team’, riunendo sotto lo stesso tetto stelle di prima grandezza che, finora, in pochi credevano in grado di coesistere.
Prendiamo James Harden e Chris Paul, ad esempio. Entrambi sono stati per anni il perno unico attorno a cui ruotava il sistema di gioco delle rispettive squadre (Rockets e Clippers). In particolare, il ‘Barba’ è entrato nella ionosfera delle star NBA quando Mike D’Antoni ha deciso di affidargli ufficialmente il ruolo di playmaker. Ora che a fargli compagnia ci sarà CP3, una delle più grandi point guard della storia, l’ex-Thunder sarà chiamato ad un’importante prova di maturità. Dovessero trovare la giusta alchimia (entrambi sembrano avere i requisiti tecnici e mentali per far si che ciò avvenga), D’Antoni avrebbe tra le mani un ‘doppio motore’ senza eguali, in grado di far girare a mille la squadra nell’arco di tutti i 48 minuti. La ricetta di base non cambierebbe: via di corsa e ‘fucilate’ per i tiratori dietro l’arco, pronti a scatenare una pioggia di triple. Oppure, dritti al ferro. In più, nei momenti in cui i due playmaker saranno in campo contemporaneamente, il loro continuo movimento lontano dalla palla potrebbe far impazzire qualsiasi difesa. Insomma, questi Rockets promettono spettacolo. Per diventare una credibile contender, però, Houston avrà bisogno di un valido apporto dalla panchina (con le rotazioni pressoché dimezzate dopo la trade con i Clippers) e di rendere quantomeno presentabile la fase difensiva, tutta da (ri)organizzare dopo la partenza del ‘faro’ Patrick Beverley.
Se la sopraffina intelligenza e versatilità di Paul possono rappresentare un notevole vantaggio per il suo inserimento ai Rockets, in casa Thunder le incognite sono decisamente maggiori. Paul George e Carmelo Anthony, i grandi innesti estivi, sono stati fin dai loro esordi le principali opzioni offensive delle loro squadre. Nazionale a parte, non hanno mai giocato insieme ad altre superstar (Melo è stato compagno prima di Iverson, poi di Porzingis, ma in entrambi i casi una delle due stelle non era ancora al top della carriera). Russell Westbrook è stato per anni il ‘secondo violino’ di Kevin Durant, poi però è arrivata la ‘Triple-Double Season’ che lo ha consacrato MVP. Difficile ricordare una situazione con così tanti galli nello stesso pollaio. Per evitare un roboante flop, i nuovi ‘Big Three’ dovranno calarsi anima e corpo in un contesto totalmente inedito. Dei tre, la vera chiave sarà PG13. A 27 anni, la sua carriera è pronta raggiungere il picco massimo. Nell’Indiana è diventato un All-Star, ora è arrivato per lui il momento di provare a vincere. Le sue strabilianti doti tecnico-atletiche e la sua versatilità tattica lo rendono un potenziale MVP, ma per puntare all’anello con i Thunder dovrà accettare un ruolo da co-protagonista. Ci riuscirà? Con le voci su un possibile futuro gialloviola (magari da uomo-franchigia) mai del tutto sopite, potrebbe rivelarsi l’ingranaggio più delicato della macchina di Billy Donovan.
Come nel caso dei Rockets, anche per OKC il principale difetto è la scarsa profondità del roster. Per arrivare a George e Anthony (che l’anno prossimo potrebbero decidere di andarsene) sono stati ceduti Victor Oladipo, Doug McDermott, Domantas Sabonis ed Enes Kanter; il pericolo di trovarsi con la ‘coperta corta’ è tangibile.
Due Super-Team non ancora da titolo, forse, ma veder giocare tutte queste star assieme per almeno 82 partite rappresenta sicuramente un validissimo motivo per aspettare con trepidazione la stagione NBA 2017/18
5– Il regno dei lupi

Il trio di giovani star dei T’Wolves. Da sinistra: Andrew Wiggins, Karl-Anthony Towns e Jimmy Butler
Anche l’anno scorso i Minnesota Timberwolves partivano con i riflettori puntati addosso. Da loro ci si aspettava il salto di qualità che li avrebbe riportati ai playoff, invece la loro stagione è finita ad aprile, esattamente come le dodici precedenti. Esito sorprendente, ma fino a un certo punto; i ‘giovani lupi’ erano ancora da svezzare. Il ‘sergente’ Tom Thibodeau ci ha provato, si è dannato, ma non era ancora il momento. Serviva dell’altro lavoro, quello portato avanti dalla dirigenza in una off-season da assoluti protagonisti.
Tutto è iniziato la sera del draft, quando il GM Scott Layden e soci hanno spedito Zach LaVine, Kris Dunn e la settima scelta (Lauri Markkanen) a Chicago in cambio di Jimmy Butler. Poi è arrivata la free-agency, che ha portato nel Minnesota Jeff Teague (che prenderà il posto di Ricky Rubio, finito ai Jazz), Aaron Brooks, Jamal Crawford e Taj Gibson. Tanti giocatori di esperienza (ma non vecchi, a parte il sempreverde ‘J-Crossover’) e una superstar (Butler) in grado di fare la differenza su entrambi i lati del campo. Tutto questo in attesa che i veri fenomeni della squadra esplodano definitivamente. Karl-Anthony Towns e Andrew Wiggins (fresco di lauto rinnovo contrattuale da 148 milioni di dollari in cinque anni) sono attesi alla stagione della consacrazione, quella che potrebbe regalare ad entrambi la prima apparizione ad un All Star Game. KAT ha tutte le potenzialità per diventare uno dei più grandi giocatori della nuova generazione mentre Wiggins. realizzatore sempre più continuo (23.6 punti di media nel 2016/17, sedicesimo in tutta la NBA), ha talento e mezzi atletici per migliorare tanto anche in difesa. Ecco, la difesa…
Una delle principali cause (insieme all’inesperienza) del fallimento della scorsa stagione è stata un’applicazione difensiva inaccettabile, soprattutto per una squadra allenata da Thibodeau. Butler e Gibson possono garantire un enorme miglioramento da quel punto di vista, ma sarà soprattutto il loro approccio a dover essere un esempio per i più giovani, Wiggins e Towns su tutti. Anche perché ‘Thibs’ non è uno che fa prigionieri. Finché la squadra sarà nelle sue mani, cercherà di plasmarla sempre più secondo i suoi rigidi dettami. Dovesse riuscirci, potremmo trovarci di fronte ad una versione evoluta dei suoi vecchi Bulls. Mica male!
Aspettarci una squadra da titolo sarebbe ingiusto; parliamo pur sempre di un gruppo assemblato da pochissimo tempo. La sensazione predominante, però, è che sentiremo parlare molto presto di questi T’Wolves. il regno dei Lupi sta per cominciare.
6 – The Process: part 2

Trio di belle speranze anche a Philadelphia: Ben Simmons (#25), Joel Embiid (#21) e Markelle Fultz (#20)
A proposito di futuri dominatori; i Timberwolves della Eastern Conference sono indubbiamente i Philadelphia 76ers. Quello che l’ex-GM Sam Hinkie definì “The Process” è ormai pronto per entrare nella seconda fase. La prima ha visto anni di sconfitte, record negativi e roster imbarazzanti; tutto ciò con lo scopo di accumulare più talento possibile in sede di draft. Il compimento di questo ‘diabolico’ piano si è avuto con le prime scelte assolute delle ultime due edizioni, che si sono trasformate in Ben Simmons e Markelle Fultz. Entrambi sono accompagnati da aspettative altissime, visto il talento cristallino messo in mostra nelle rispettive – e brevissime – carriere collegiali. Un conto però è brillare in mezzo ai ‘ragazzini’, un altro è confermarsi tra i migliori atleti del mondo. Un compito reso ancora più difficile dal fatto di trovarsi nella stessa squadra, con l’inevitabile conseguenza di togliersi luce a vicenda. Che poi, di luce, non ce n’è moltissima, visto che il 2017/18 sarà il secondo anno tra i professionisti di Joel Embiid.
L’inizio di carriera del centro camerunese parla di 31 partite disputate in tre stagioni (scelto al draft 2014, ha saltato le prime due per i continui problemi a un piede), ma in quelle 31 partite si è visto un autentico fenomeno. Non solo per le mere cifre (27 punti, 10.5 rimbalzi, 3.1 assist e3.1 stoppate di media) che comunque sono eclatanti, bensì per aver mostrato una paurosa combinazione di qualità; mani morbidissime, gran controllo del corpo (decisamente insolito per un colosso di 213 cm per 113 kg), movimenti in post basso da centro puro e range di tiro da lungo moderno. Non ci sono dubbi; un Embiid sano diverrebbe presto un enorme problema per chiunque. La dirigenza lo sa bene, perciò ha deciso di investire su di lui un sontuoso contratto da 148 milioni in cinque anni.
Se anche una soltanto fra queste grandi promesse dovesse rispettare le attese, Phila avrebbe in mano un giocatore su cui costruire i successi futuri. Il roster a disposizione di Brett Brown è estremamente giovane (solo J.J. Redick, Jerryd Bayless, Amir Johnson, Kris Humpries e il redivivo Emeka Okafor sono nati prima del 1990) e molti di questi ragazzi non saranno possibili superstar – come i tre già citati – ma hanno già trovato il modo di imporsi ad un livello così alto (Dario Saric su tutti).
Come nel caso dei Timberwolves, non bisogna avere fretta. “I ragazzi si faranno” direbbe De Gregori. Servirà ancora un po’di pazienza, e magari qualche altra sconfitta. Visto il crollo della competizione ad Est, però, i nuovi Sixers possono legittimamente puntare ad un ruolo da ‘outsider’ ai prossimi playoff.
7 – (Verso) il ritorno dello Showtime

Da sinistra: Brandon Ingram, Lonzo Ball e Kyle Kuzma. Il nuovo corso dei Lakers ruoterà intorno a loro
Se Wolves e Sixers (ma anche Celtics) sono arrivati alla fine di una lunga fase di ricostruzione, i Los Angeles Lakers vi ci sono tuttora impantanati. Negli ultimi anni è stata commessa una moltitudine di errori sotto ogni punto di vista, tanto che, nel corso della passata stagione, la presidentessa Jeanie Buss ha deciso di fare ‘piazza pulita’ nello staff dirigenziale. Dopo quattro stagioni senza playoff, i gialloviola devono ripartire da zero per l’ennesima volta. Questo 2017/18, però, si apre con un entusiasmo e un ottimismo che non si percepivano da parecchio tempo. Un po’ perché il nuovo president of basketball operations è Magic Johnson, ovvero l’entusiasmo e l’ottimismo fatte persona, ma soprattutto perché in città è arrivato un giovane che farà parlare molto di sé (se non altro per il circo mediatico che lo accompagna ormai da diversi mesi).
Lonzo Ball non deve essere atteso come il nuovo Messia, sarebbe deleterio per tutti. Però è il tipo di giocatore di cui i californiani avevano bisogno: un playmaker, non da intendere semplicemente come posizione, bensì come attitudine. Nel suo anno a UCLA si è messo in luce per l’innata leadership e per la capacità di dettare i tempi ad una squadra per lui nuova, come lo saranno i Lakers nel 2017/18. Già nella vittoriosa Summer League di Las Vegas (torneo di cui è stato eletto MVP), Lonzo ha preso subito in mano le chiavi dell’attacco, esaltando al massimo le qualità di compagni perlopiù sconosciuti.
Tra questi c’era Kyle Kuzma, la vera rivelazione di questo avvicinamento alla regular season. Dopo essere stato premiato come MVP della finale di Summer League, ha continuato a brillare in preseason, chiudendo spesso e volentieri come miglior realizzatore di squadra. Dovesse confermarsi anche quando si inizierà a fare sul serio, metterebbe una certa pressione sulle spalle di Julius Randle, che vedrebbe il suo posto in quintetto non più così sicuro. Nei suoi primi tre anni da professionista, l’ex ala di Kentucky ha mostrato sprazzi di grande talento, ma il suo effettivo potenziale rimane tuttora un mistero, vista l’estrema incostanza di rendimento.
Il principale compito di coach Luke Walton sarà capire su chi puntare, tra i tanti giovani a disposizione. Ball è il leader designato, ma dovrà reggere l’impatto con una lega che, a causa delle ‘sparate’ del padre, potrebbe accoglierlo non proprio a braccia aperte. Poi c’è Brandon Ingram, seconda scelta assoluta al draft 2016, su cui Magic ha dichiarato di contare molto. La sua stagione da rookie è stata piuttosto incolore, soprattutto in relazione alle aspettative; in questo secondo anno dovrà trovare un modo per emergere. Chiaro, se Ball e Ingram si rivelassero effettivamente i fenomeni che sembrano, ci sarebbero tutte le premesse per una nuova versione dello ‘Showtime’. Intorno a loro, però, bisognerà costruire una squadra. Cosa che, in questo momento, i Lakers non sono ancora. Il roster con cui Walton apre la stagione è un interessante mix di giovanissimi e veterani, ma in una Western Conference così competitiva, in casa gialloviola faranno bene ad armarsi di santa pazienza
8 – 2017: un’ottima annata

Alcuni tra i migliori prospetti del draft 2017. Da sinistra: Lonzo Ball, Jayson Tatum, Markelle Fultz, Josh Jackson e De’Aaron Fox
Dopo il grande esordio di Karl-Anthony Towns, Kristaps Porzingis e Devin Booker l’anno precedente, la classe 2016 del draft NBA ha reso ben al di sotto delle aspettative, almeno per quanto riguarda il primo impatto con la lega. I talenti più attesi (da Brandon Ingram a Kris Dunn) hanno faticato enormemente ad emergere, rivelandosi ancora troppo acerbi per affrontare il grande salto fra i professionisti. Oltretutto Ben Simmons, la prima scelta assoluta, è stato tenuto ai box per tutta la stagione per recuperare da un infortunio al piede. Il suo debutto renderà ancora più interessante l’ultima infornata di talenti. Per quel poco visto finora (Summer League e preseason), il draft 2017 ha tutte le potenzialità per essere ricordato come uno dei più ricchi degli ultimi anni.
Alcuni fra i giocatori scelti sembrano in grado di poter cambiare le sorti delle rispettive franchigie, di cui potranno diventare i leader fin dall’inizio. Prendiamo Lonzo Ball, ad esempio, scelto da Magic Johnson come nuovo volto dei decaduti Los Angeles Lakers. Oppure De’Aaron Fox, fulmineo playmaker da Kentucky chiamato a guidare i nuovi Sacramento Kings. O ancora Dennis Smith Jr., giocatore attorno al quale i Dallas Mavericks sperano di costruire la squadra del post-Nowitzki.
Se è vero che i tre citati sembrano gli unici potenziali uomini-franchigia, dall’ultimo draft sono usciti anche talenti che potrebbero comunque diventare delle stelle nella NBA del 2020. E’ il caso di Markelle Fultz, prima scelta assoluta dei Philadelphia 76ers (a proposito: com’è che, in fase di pronostico sul possibile rookie dell’anno, ci si sia dimenticati di lui? Non doveva essere “un talento che passa una sola volta, da non farsi scappare”?), di Jayson Tatum, grandissimo realizzatore dei Boston Celtics o di Josh Jackson, ala dei Phoenix Suns in grado di fare la differenza su entrambe le metà campo.
Ci sono poi le possibili sorprese, quelli che potrebbero fallire clamorosamente così come esplodere inaspettatamente. Eco allora Jonathan Isaac, intrigante lungo degli Orlando Magic, Lauri Markkanen, che ha mostrato grandissime doti all’ultimo EuroBasket, Malik Monk e Donovan Mitchell, possibili soluzioni alle lacune offensive di Charlotte Hornets e Utah Jazz, o Kyle Kuzma, al momento il principale candidato al titolo di “steal of the draft” (scelto con la ventisettesima chiamata da Brooklyn e spedito ai Lakers nella trade per D’Angelo Russell).
La storia, soprattutto quella recente, ci ha più volte insegnato a non esagerare con l’entusiasmo e con le aspettative. Prima di poter valutare con un minimo di chiarezza le scelte compiute dalle varie franchigie e le carriere di questi ‘ragazzini’ potrebbero servire parecchi anni. Ciò non toglie che i debuttanti della stagione 2017/18 meritino di essere seguiti con particolare curiosità
9 – Corsa all’ MVP

Da sinistra. LeBron James, Kevin Durant, Kawhi Leonard e Russell Wesbrook. Sono loro, insieme a James Harden, i principali favoriti per il titolo di MVP.
E’ vero, il titolo di Most Valuable Player può stonare con il concetto di “sport di squadra” e molte volte non dice tutto sulla stagione del vincitore. Però un MVP entra di fatto nella storia del gioco, consacrando il suo nome tra quelli degli immortali. Dopo l’egemonia di Stephen Curry nel biennio 2015-2016, lo scorso anno ci ha riservato una caccia al premio più agguerrita che mai. La memorabile regular season di James Harden, Kawhi Leonard e LeBron James non è bastata, per quanto incredibile da affermare. Russell Westbrook, infatti, ha deciso di stracciare tutti i libri di storia, chiudendo in tripla-doppia di media e superando il leggendario record di Oscar Robertson di 41 triple-doppie stagionali.
Riguardo alla stagione che sta per cominciare, il fenomeno degli Oklahoma City Thunder rimane un candidato d’obbligo per la conquista del trofeo, ma di certo non è né il primo, né l’unico. Gli arrivi di Paul George e Carmelo Anthony fanno sì che il numero zero non avrà più a sua completa disposizione il 90% dell’attacco dei Thunder. L’one man show del 2016/17, in fin dei conti l’unico modo possibile per dare un senso alla stagione della prima OKC post-Durant, chiuderà con ogni probabilità i battenti, lasciando spazio ad un attacco finalmente più vario, che darà alla squadra di Billy Donovan delle chance più concrete di fare strada ai playoff. Westbrook potrebbe certamente ambire alla statuetta qualora riuscisse ad imporsi come lìder maximo anche in mezzo a compagni di grande livello. Un po’ quello che è successo a Kevin Durant, il maggiore indiziato per sollevare il trofeo nel 2018. Nella passata stagione, KD ha dimostrato non solo di poter giocare con Steph Curry e Klay Thompson, ma addirittura di poterli utilizzare quasi da ‘gregari’ fino alla volata finale, quella che gli ha permesso di conquistare, da protagonista, il suo primo titolo NBA. Scrollatosi finalmente di dosso il pesante fardello di ‘perdente’ (ma davvero?), il numero 35 potrebbe non fermarsi più. A tal proposito, giova ricordare come anche l’anno scorso, fino al momento dell’infortunio, Durant fosse uno dei più credibili rivali di RW.
In quanto al due volte MVP Steph Curry, il discorso è quantomeno simile a quello della passata stagione; con una presenza così ‘ingombrante’ al suo fianco, dovrà per forza sacrificare parecchio spazio sul palcoscenico. Anche se la sua preseason è stata incredibile, è difficile pronosticare un suo tris nel 2018.
Oltre agli ex ‘fratelli’ Westbrook e Durant, i nomi più papabili sono quelli dei runner-up dello scorso anno. LeBron James è più carico che mai. Al posto di un super attaccante come Kyrie Irving avrà al suo fianco dei ‘secondi violini’ più convenzionali come Derrick Rose e Dwyane Wade. A 33 anni, King James potrebbe avere ancora voglia di lasciare un segno indelebile anche prima del solito periodo tra la fine di maggio e la metà di giugno. Anche in questo caso è doveroso un promemoria: nel 2016/17 è stato il giocatore con il minutaggio medio più alto della lega (alla faccia di chi parla di “riscaldamento per i playoff”).
Kawhi Leonard è sempre il ‘primo degli umani’, quello pronto a vincere il premio al netto delle prestazioni dell’alieno di turno (vedi Curry nel 2016 e ‘Mr. Triple-Double’ l’anno scorso). Come sempre è il miglior two-way player (attacco e difesa) della NBA e, come ogni anno, ha la certezza quasi matematica che i suoi Spurs finiscano tra le prime della classe.
Se si parla di ‘fame’, però, quello che ne ha più di tutti è James Harden, a cui un paio di stagioni stratosferiche non sono bastate per arrivare sul tetto del mondo. Considerando che i suoi Houston Rockets sono più forti che mai e che il connubio con Chris Paul potrebbe (il condizionale è comunque d’obbligo) fare faville, scommettere su di lui potrebbe non essere un grosso azzardo.
Riguardo a Giannis Antetokounmpo, un altro dei nomi più citati in questo periodo, la sensazione è che sia ancora presto. Avrà i Milwaukee Bucks totalmente ai suoi piedi e la possibilità di lottare per i primi quattro posti ad Est, ma la concorrenza è di un livello stellare. Saremmo comunque ben felici di ricrederci!
10 – Italians (could do it better)

Nuova stagione e nuove maglie per Marco Belinelli (Atlanta Hawks) e Danilo Gallinari (Los Angeles Clippers)
Stagione di grandi cambiamenti per gli ultimi due giocatori italiani rimasti in NBA. Per Marco Belinelli non è certo una novità, visto che gli Atlanta Hawks saranno la sua ottava squadra in undici anni oltreoceano. Dopo l’apoteosi del titolo NBA e della vittoria alla gara del tiro da tre punti con la maglia dei San Antonio Spurs, la carriera del ‘Beli’ è stata un continuo girovagare. Prima le follie di Sacramento, con il dualismo George Karl – DeMarcus Cousins, poi la delusione di Charlotte, con gli Hornets rimasti fuori dai playoff malgrado le grandi ambizioni. I suoi nuovi Hawks non sono proprio il contesto ideale per chi vuole tornare a competere ad alti livelli. Lasciati partire anche gli ultimi pezzi della squadra che arrivò in finale di Conference nel 2015, in Georgia è iniziata ufficialmente la ricostruzione. Anche in un Est nettamente meno competitivo rispetto al passato, la post-season appare un obiettivo fuori portata. Anzi, scegliere in lotteria al prossimo draft non dovrebbe dispiacere più di tanto a dirigenza e tifosi. Marco avrà comunque l’occasione di mettersi in mostra in un contesto che gli dovrebbe garantire parecchi minuti (è partito spesso in quintetto in preseason), per poi andare a caccia di nuove avventure la prossima estate. Oltretutto, in panchina c’è Mike Budenholzer, un allenatore capace, in passato, di valorizzare al massimo i suoi giocatori, a prescindere dall’effettiva caratura (vi ricordate di DeMarre Carroll, quasi All-Star con coach Bud e ora parcheggiato nel ‘sottobosco’ di Brookyln?).
Prospettive decisamente più interessanti per Danilo Gallinari, il cui grado di popolarità ha recentemente subito un brusco calo in seguito allo stupido gesto che gli è costato l’Europeo. Archiviata ufficialmente la parentesi da presunto uomo-franchigia a Denver (non che abbia fatto male, più che altro i Nuggets non hanno mai avuto un vero e proprio ‘leader supremo’), il ‘Gallo’ approda per la prima volta in carriera in un contesto davvero competitivo. I Los Angeles Clippers sembrano (incredibilmente) usciti più forti dalla trade che ha portato Chris Paul a Houston. Coach Doc Rivers, che ha più volte dichiarato di aver sempre voluto allenare un giocatore come Danilo, si ritrova con un roster più completo e profondo che mai. Se il backcourt è tutto da scoprire (Milos Teodosic potrebbe incantare, ma anche deludere e tornare in Europa nel giro di un paio d’anni), quello che una volta avremmo definito ‘reparto avanzato’ ha un potenziale spaventoso. Con l’atletismo e la presenza sotto canestro di DeAndre Jordan, il ritorno agli standard abituali di un Blake Griffin finalmente in salute e l’inedita varietà offensiva garantita dall’innesto di Gallinari, la franchigia potrebbe anche arrivare laddove il grande CP3 non è mai riuscito a portarla. Sempre che la vecchia maledizione non torni a colpire…