Nell’ultimo ventennio, il nome San Antonio Spurs è diventato sinonimo di eccellenza, sia a livello sportivo che, soprattutto, organizzativo. D’altronde, venti apparizioni consecutive ai playoff e cinque titoli NBA non arrivano certo per caso.
Si potrebbe quindi dire che per la franchigia texana sia una questione di tradizione… Vero, ma non del tutto.
Quando si affacciarono per la prima volta sul mondo dello sport professionistico, esattamente cinquant’anni fa, gli allora Dallas Chaparrals furono tra i principali interpreti del selvaggio spettacolo che accompagnò la nascita della American Basketball Association.
La creazione della ABA fu basata quasi esclusivamente sull’improvvisazione. Mancanza di fondi, arene a dir poco inadeguate, colossali ‘casting’ di massa per racimolare giocatori degni di tale definizione, franchigie spesso affidate non al miglior offerente, bensì al primo (“Anche il Polo Nord sarebbe stato una buona base per una squadra, se solo ci fosse stato un eschimese disposto a comprarla” dichiarò una volta Dick Tinkham, GM degli Indiana Pacers).
Il principale ideatore del progetto, Dennis Murphy, aveva una sola missione nella vita: lanciare leghe ‘alternative’. Alla ABA seguirono infatti la World Hockey League (incorporata dalla NHL nel 1979) e la Roller Hockey International (lega di hockey su pista durata appena sei anni). Mai domo, tentò un ultimo assalto negli Anni ‘90 con la Global Hockey League, che non vide mai la luce.
Per dare visibilità alla ABA, Murphy chiamò a dirigerla nientemeno che George Mikan, il LeBron James degli Anni ’50, cinque volte campione BAA/NBA con i Minneapolis Lakers. Mikan accettò il ruolo di commissioner a due condizioni: la sede operativa sarebbe stata a Minneapolis (“Come? New York?? Non se ne parla, io non mi muovo da casa mia!”) e le squadre avrebbero giocato con un pallone rosso, bianco e blu (i colori americani), divenuto poi una vera e propria icona degli Anni ’70.
La disperata ricerca di fondi e l’insaziabile caccia all’affare scatenarono una folle corsa per l’assegnazione delle varie franchigie. Tra le pretendenti non poteva certo mancare Dallas, la città dei petrolieri, dove il fiuto per il business era piuttosto sviluppato. Inizialmente, Murphy affidò la franchigia con sede nella ‘Big D’ a una cordata composta dai californiani Roland Speth, Gary Davidson e Don Regan. Quando si scoprì che i tre individui non avevano realmente le capacità economiche a lungo millantate (non era affatto una cosa insolita, fra i pionieri della ABA), il loro posto venne preso da Bob Folsom, investitore texano (scomparso di recente) che diventerà anche sindaco di Dallas nel 1976.
Finalmente i soldi erano arrivati, ma non per questo bisognava per forza spenderli tutti. Per ‘tirar fuori dalla sabbia’ la neonata franchigia, Folsom si affidò essenzialmente a due persone: Max Williams e Terry Stembridge. Il primo, principale fautore dell’arrivo del basket professionistico a Dallas (era stato lui a contattare gli investitori), si prese l’incarico di general manager. Il secondo, insegnante liceale e speaker radiofonico per passione, venne assunto come telecronista. Ben presto, Williams e Stembridge si resero conto che il loro effettivo ruolo sarebbe stato ben più ampio. Come racconta lo stesso Williams nel libro di Terry Pluto Loose Balls – The short, wild life of the American Basketball Association, “Quando dico che io e Terry Stembridge facevamo tutto in quel primo anno, intendo proprio tutto. Dovevamo perfino stendere la linea dei tre punti sul terreno di gioco, quando ci esibivamo in giro per il Texas. Vendevamo i biglietti prima degli incontri, restavamo a pulire alla fine e facevamo tutto il resto nel mentre.”.
Dalla breve gestione-Speth, i nostri eroi avevano ereditato due ingombranti lasciti. Innanzitutto, il nome. Dallas Chaparrals. Inutile scervellarsi pensando a chissà quali tradizioni texane; al termine di una ‘infuocata’ riunione, saltò fuori il genio: “Aspettate un attimo: come si chiama questa stanza? Chaparral’s Room?…Andata, liberi tutti!”. Il fatto che il nome delle franchigie non fosse una priorità, in quell’irripetibile periodo, è testimoniato anche dalla presenza dei vari Anaheim Amigos, New York Americans e Denver Rockets (no, non quelli che oggi sono a Houston; i Rockets erano i camion dell’azienda del proprietario!). L’altro pesante fardello lasciato da Speth fu… il draft.
Uno dei maggiori meriti degli Spurs dell’era moderna è stato quello di aver spesso agito in maniera impeccabile la notte del draft. Tralasciando le edizioni del 1987 e del 1997, quando David Robinson e Tim Duncan erano le inevitabili prime scelte assolute, la grandezza dell’ultimo ventennio è stata raggiunta con delle mosse poco prevedibili, che alla fine si sono rivelate vincenti. Ecco dunque Manu Ginobili selezionato con la 57esima chiamata nel 1999, Tony Parker con la 28esima nel 2001 e Kawhi Leonard ‘scippato’ agli Indiana Pacers, che nel 2011 spesero per lui la scelta numero 15. Un pizzico di fortuna, certo, ma anche una certosina pianificazione.
Nell’aprile del 1967, all’alba della Summer Of Love, anche Max Williams aveva pianificato per bene quello che sarebbe stato il primo draft della storia degli Spurs. Dopo aver spulciato ogni singolo annuario e ascoltato il parere dei più disparati scout (non potendo contare su Youtube o DraftExpress), aveva consegnato a Speth una lista di giocatori, aspettandosi di discuterne presto con lui. Alcuni giorni dopo, invece, Speth si presentò da lui con interessanti notizie. La loro conversazione non potrebbe essere raccontata meglio che dallo stesso Williams (sempre da Loose Balls).
Speth – “Bene, abbiamo fatto il draft!”
Williams – “Di cosa stai parlando??”
S – “E’ successo tutto molto velocemente: mi hanno chiamato per dirmi che il draft sarebbe stato il giorno dopo; io ti ho cercato, ma non c’eri, quindi ho preso la tua lista e sono andato a New York a fare il draft!”
W – “Avresti dovuto portarmici, tu non sai niente sui giocatori!”
S – “E invece indovina… Ho preso i primi cinque giocatori della lista!”
W – “Roland… Quella lista non era in ordine di talento, ma alfabetico.”
S – “Oh.”
W – “Oh.”
Fu così che, vent’anni prima di ‘The Admiral’, il primo giocatore draftato nella storia della franchigia fu… Matt Aitch!
Come si può facilmente intuire, non si trattava del Markelle Fultz della situazione, bensì di un giocatore di Michigan State selezionato anche nel draft NBA (dai Detroit Pistons) con la chiamata numero… 135.
Prendere al draft giocatori scelti anche dalla NBA, sperando di soffiarli alla concorrenza, era un’altra delle peculiarità di quella lega ‘ribelle’. Ecco dunque che, nell’elenco dei draftati dei ‘Chaps’, comparve anche il nome di Pat Riley, il quale non metterà mai e poi mai piede nella ABA.
Quando Roland Speth lasciò finalmente l’organizzazione in mani migliori, Williams e Stembridge dovettero prodigarsi per reclutare un gruppo di giocatori quantomeno presentabili. Ormai avrete capito che non leggerete i nomi di Avery Johnson, Sean Elliott o Bruce Bowen. Tra i componenti del primo roster dei futuri Spurs c’erano buoni atleti come Maurice McHartley (detto ‘Toothpick’ perché per giocare doveva tassativamente avere uno stuzzicadenti in bocca), Bob Verga (miglior realizzatore di squadra, finché non venne chiamato nell’esercito), Cincinnatus Powell, John e Charlie Beasley (omonimi, non parenti), più alcuni ‘mestieranti’ che dopo una sola stagione sparirono completamente dai radar del basket professionistico. La ‘dirigenza’ dei Chaps ricevette persino la candidatura (via posta) di un detenuto dell’Oklahoma, che sperava di ottenere così la libertà vigilata, più che una carriera da professionista.
Il leader, il miglior giocatore e l’allenatore della squadra, però, erano una sola persona, una e trina: Cliff Hagan.
Hagan arrivò in Texas al termine di una carriera da Hall Of Fame (vi entrerà nel 1978). Campione NCAA nel 1951 con la maglia (numero 6, poi ritirata) di Kentucky, fu scelto dai Boston Celtics di Red Auerbach al draft 1953. Dopo essere rimasto un ulteriore anno al college (allora il regolamento lo permetteva) e averne passati altri due nell’esercito, era pronto per debuttare in biancoverde. Peccato però che, nell’estate del 1956, in uscita da University of San Francisco ci fosse un certo Bill Russell, centro destinato a riscrivere la storia dello sport. Nell’ingegnosa trade architettata da Auerbach per mettere le mani sulla futura leggenda fu coinvolto anche Hagan, che passò ai St. Louis Hawks. Le strade di Cliff e dei Celtics si incrociarono di nuovo, visto che St. Louis e Boston si sfidarono in ben quattro edizioni delle NBA Finals. Vinsero quasi sempre i Celtics (ovviamente), tranne che nel 1958, anno in cui Hagan, Bob Pettit e coach Alex Hannum trascinarono gli Hawks al primo e unico titolo nella storia della franchigia. Nel 1966, il cinque volte All-Star decise di ritirarsi, ignaro del fatto che il ‘meglio’ dovesse ancora venire.
Per convincerlo a tornare sul parquet, un anno dopo, Max Williams gli affidò il doppio incarico di allenatore-giocatore. Se il compito poteva sembrare impegnativo per lui, si rivelerà decisamente più complicato da gestire per dirigenza e compagni. Descritto da molti come una persona adorabile (“un gentleman”, dirà di lui Terry Stembridge) lontano dal campo, una volta arrivato ‘al lavoro’ Hagan si reincarnava in una ‘belva umana’, dando sfogo alla sua furia sia nel rettangolo di gioco, che in panchina. Appena entrato in contatto con il variopinto mondo ABA, iniziò a questionare vivacemente sul pallone tricolore, ritenendolo inadeguato al professionismo. La sua battaglia personale finì quando Williams gli fece notare che quello era il pallone ufficiale della lega, e quello sarebbe rimasto, che gli piacesse o meno.
Dopo una delle sue memorabili ‘cazziate’ ai giocatori (condite dal consueto repertorio di insulti) Cliff, interrogato a riguardo dallo stesso general manager, se ne uscì con la seguente massima: “Max, io ho avuto otto allenatori da professionista. Sei di questi mi piacevano, gli altri due li odiavo. Gli unici con cui ho vinto sono quelli che odiavo.”.
La sua ferocia come coach, però, spariva al cospetto del suo temperamento in campo. Certo, ai tempi il gioco era estremamente fisico (“dovevi presentare una radiografia per ottenere due tiri liberi” scrisse il giornalista Jim Murray), ma Hagan andava decisamente oltre tale concetto. Per lui pugni, schiaffi e gomitate facevano parte del gioco, a prescindere dall’importanza della gara. Williams stesso raccontò di averlo affrontato in una partitella estiva, di aver tentato una penetrazione e di essere stato scaraventato contro il muro dal suo dipendente.
Una domenica, Dallas Chaparrals e Minnesota Muskies erano avversari in una partita che la ABA aveva dedicato ai ragazzi (il cosiddetto ‘Kids’ Day Game’). Dopo trenta secondi di gioco, Les ‘Big Game’ Hunter, centro dei Muskies, rifilò una gomitata a Cliff, la cui prima reazione fu una ‘semplice’ minaccia. Alla seconda provocazione, però, Hagan livellò l’avversario con un rapido un-due-tre. Ne scaturì una rissa furibonda, che vide i due portati fuori dal campo coperti da una maschera di sangue. Happy Kids’ Day!
Quell’episodio mandò su tutte le furie la proprietà, che minacciò Hagan di multarlo ad ogni espulsione. Alla dura reazione del vulcanico Cliff (“Se non posso picchiare la gente, allora non posso giocare!”), Williams, che non poteva certo permettersi di licenziarlo (con quel che passava il convento, avrebbe poi dovuto allenare lui…), gli intimò di limitarsi al ruolo di coach. Si sarebbe comunque presentato in divisa da gara (per essere inserito a referto), ma non avrebbe più messo piede in campo. Quando il gioco si faceva duro, però, resistere era più difficile… A quaranta secondi dal termine della partita di Anaheim contro gli Amigos, con il punteggio in parità. Hagan decise di sfilarsi la tuta e di vincere l’incontro con uno dei suoi proverbiali ganci (intesi come tiri ad una mano; stavolta la boxe non c’entra…). Peccato però che il mondo fosse sempre contro di lui; un avversario pensò bene di saltargli sulla schiena e trascinarlo a terra. Facile immaginare il seguito: altro gancio di Hagan, stavolta diretto al corpo dell’avversario. Per sua fortuna, gli arbitri non si accorsero di nulla, facendogli risparmiare la bellezza di 2500 dollari.
Oltre ad essere un giocatore ‘rude’, Hagan era pur sempre una ex-stella NBA. Nei pochi mesi in cui giocò con regolarità divenne il giocatore di riferimento dei Chaparrals. Segnò 35 punti nella gara inaugurale contro gli Anaheim Amigos (non suoi Amigos, a quanto pare…) e venne convocato al primo All Star Game della ABA (in cui l’MVP fu Larry Brown, destinato ad un’immensa carriera da allenatore). Dallas chiuse la prima stagione della nuova lega con il quarto miglior record (e al secondo posto nella Western Division). Ai playoff la squadra di Hagan ebbe la meglio sugli Houston Mavericks (!), poi venne eliminata dai New Orleans Buccaneers di Larry Brown e Doug Moe.
Uno dei moltissimi episodi degni di nota, nella prima stagione dei futuri San Antonio Spurs, ebbe luogo il 13 novembre 1967, quando al Moody Coliseum di Dallas arrivarono gli Indiana Pacers. Con i Chaps avanti di due lunghezze, il playmaker di Indiana Jerry Harkless fece partire un inverosimile tiro in gancio da 27 metri, che rimbalzò sul tabellone e si insaccò nella retina. La delusione dei padroni di casa si stava per tramutare in concentrazione per l’imminente overtime, quando l’arbitro fece notare un piccolo dettaglio: con la nascita della ABA era tornato il tiro da tre punti (già in uso ai tempi della defunta American Basketball League), perciò quel canestro aveva appena decretato la vittoria dei Pacers. Quello di Harkness viene spesso indicato come il tiro segnato da più lontano nella storia del basket americano; in realtà, quelli che inizialmente sembravano 92 piedi vennero ricalcolati in 88. Anni luce più avanti, nel 2001, Baron Davis (Charlotte Hornets) infranse quel record con un canestro da 89 piedi contro i Milwaukee Bucks. Con grande sportività, i Chaparrals celebrarono l’incredibile gesto dell’avversario ponendo il logo della ABA nel punto esatto in cui il tiro era partito.
Negli anni successivi, per la soleggiata Dallas passò una variopinta collezione di giocatori, alcuni molto validi, altri molto meno. Ecco allora Levern ‘Jelly’ Tart (famoso per portarsi sempre dietro una pistola, tanto che il suo ex allenatore Bruce Hale disse: “Non vorrei mai trovarmi da solo con lui in un vicolo buio”), Ron Boone (detto ‘The Legend’, perché dopo ogni estate si presentava sempre in gran forma), Eugene ‘Goo’ Kennedy (che pare abbia adottato circa quaranta figli), Mike Maloy (che tuttora suona per le strade di Vienna con la sua Boring Blues Band), Bob Netolicky (proprietario di curiosi animaletti domestici, tra cui un leone e un gattopardo) e Ron Sanford (che giocò una sola partita in ABA, poi venne arrestato per narcotraffico). I Chaparrals non riuscirono a ripetere i buoni risultati del primo anno. Con l’arrivo della stagione 1969/70, Cliff Hagan si ritirò ufficialmente dal basket giocato, dedicandosi esclusivamente alle mansioni da allenatore. L’idea non fu apprezzatissima dagli ex compagni che, stanchi delle sue continue sfuriate, incoraggiarono il suo licenziamento. A metà stagione, il ruolo di head coach fu quindi assunto da… Max Williams, chi altri?! (la scelta della ‘auto-assunzione’ verrà ripresa, circa trent’anni dopo, da un altro GM degli Spurs, tale Gregg Popovich).
Con i risultati che tardavano ad arrivare (i Chaps non andarono mai oltre il primo turno di playoff), il già carente pubblico di Dallas cominciò a stancarsi, lasciando gli spalti spesso semivuoti. Williams e soci tentarono la carta della regionalizzazione (nel 1970/71 la squadra cambiò denominazione in Texas Chaparrals, giocando in diverse arene dello stato), ma l’ancor più scarsa affluenza di pubblico in città come Fort Worth e Lubbock fece tornare tutti sulla vecchia strada. Durante quella breve parentesi Williams, deluso dall’andamento della squadra, si auto-licenziò.
Con la bacheca persino più vuota degli spalti, la situazione economica della società vacillava sempre più. Quando la cordata presieduta da Red McCombs e Angelo Drossos si fece avanti per acquisire la franchigia e trasferirla a San Antonio, non incontrò dunque troppa resistenza. Nel 1973 i Dallas Chaparrals divennero i San Antonio Gunslingers, nome che venne nuovamente – e definitivamente – cambiato poco dopo in San Antonio Spurs. E allora sì, che la leggenda ebbe inizio.
Malgrado le enormi fatiche e i continui insuccessi, le gesta di coloro che diedero origine a tutto non vennero dimenticate. Max Williams, rimasto a Dallas per dedicarsi al business petrolifero, entrò nella Texas Sports Hall Of Fame nel 1978. Dopo il titolo vinto nel 2003, gli Spurs riservarono al mitico ‘factotum’ uno degli anelli da Campione NBA. Gli ‘ingloriosi’ Chaparrals vennero commemorati anche nel 2012, a 45 anni di distanza, quando le loro storiche divise furono indossate da Tony Parker e compagni nel corso delle ‘Hardwood Classics Nights’.