Tra un mese e mezzo o poco più si alzerà il sipario sulla nuova stagione NBA, questo lo sappiamo tutti. Ci saranno le luci, le presentazioni, i chest-to-chest, le cheerleader, la musica negli spogliatoi. Ma soprattutto ci sarà l’inno nazionale. Lui lo avrebbe suonato così, a buon diritto peraltro.
Sigla.
È difficile accettare l’idea che, per la nona stagione di fila per le squadre della Lega dove accadono meraviglie non ci sarà alcun pit-stop a Seattle, nello stato di Washington. È difficile soprattutto perché i Sonics, in diverse forme ma con colori pressoché sempre identici, hanno lasciato nell’immaginario collettivo qualcosa di simile all’impronta tracciata dai vari concittadini Jimi Hendrix, Kurt Cobain, Chris Cornell, Bruce Lee, Adam West, Bill Gates: qualcosa a metà tra il “È qui la festa” e il “Dopo di me il diluvio”, ma approcciate un attimo storie e aneddoti su Seattle e il quadro che avrete andrà ben oltre queste due abbozzate espressioni. È difficile ma tocca perché questo è il mercato baby, questo è il business, questo è il… Beh, lasciamo stare, che se no uscirebbero solo termini da bollino rosso, i tre quarti dei quali all’indirizzo di Clay Bennett, che da buon capitano di ventura al momento dell’insediamento promise che avrebbe tenuto la squadra nella città di Smeraldo il più a lungo possibile. Parole dal valore non dissimile da quello di certi politici nostrani di ieri e di oggi.
Eppure ancora qualcuno legato al vecchio Boeing c’è. Più d’uno in realtà, e si sono susseguiti sussurri e grida negli ultimi mesi. La voce più tonante, per lui che in braghini era viceversa una radiolina (copyright di Sarunas Jasikevicius), quella di Gary Payton: “Vorrei far parte del progetto e tornare a Seattle. Seattle lo merita”, ha dichiarato il Guanto, che si vede (bontà sua) in veste di co-proprietario. In effetti la prospettiva è affascinante: ve lo immaginate ad andare in escandescenze contro Mark Cuban? O a prendere a male parole Steve Ballmer, addossandogli magari la colpa di essere un tifoso Sonics che non si è impegnato abbastanza per salvare la squadra della sua città? Quando poi in realtà l’attuale proprietario dei Clippers a suo tempo ci provò, a rilevare le quote di Bennett quando fu chiaro che la squadra avrebbe transmigrato da Seattle, ma la sua opposizione fu sfilettata dagli avvocati dell’allora nuovo proprietario, che era anche buon amicone di David Stern. Le coincidenze.
Chi dell’Avvocato Commissioner (specifica doverosa visto che dalle nostre parti il nickname legale è già adottato) era il delfino è quell’Adam Silver che oggi poggia le proprie terga sullo scranno più rinomato e importante della NBA. Il buon Adam sarà anche una giovane volpe che ha appreso l’arte della caccia (al soldo) dalla vecchia volpe, ma quando si è trovato in mezzo ai lupi è parso un pelo in affanno: nella fattispecie, gli è stato chiesto esplicitamente, in occasione del Southwest Festival, cosa ne pensasse di un’espansione. Il Giovin Rampollo ha abbozzato la sua risposta basandola su ragioni economiche e necessità di mettere tutti d’accordo lanciandosi poi in un “qquantoèbbellalaenbieioggi”, ma è parsa una scalata a una parete di specchi tanto quelle del predecessore quando gli venne chiesto come mai dal board non ci si fosse impegnati un po’ di più per salvare i Sonics.
Al di là di quali furono le ragioni dell’addio alla Rainy City, che evidentemente sopravanzarono la riconoscenza che la Lega delle Meraviglie doveva alla Perla Verde, di recente si è tornato a parlare di un ritorno dei gialloverdi. Sempre Silver, nell’occasione già menzionata, ha caracollato sulle trenta squadre NBA e sul fatto che espandersi vorrebbe dire togliere dindi a tutte e trenta, ma è chiaro che quelle sono giustificazioni puerili, tanto che in un interessante articolo su Sports Daily l’autore si chiede come sia possibile che la NFL faccia il gioco delle sedie e la NBA non possa accettare la sfida di rimettere in gioco qualcuno che ha contribuito ai suoi successi negli anni ’80 e ’90. Tanto più, continuava, che Nets, Sixers e Pelicans sembrano dissanguarsi ogni anno. Il ragionamento, condivisibile, proseguiva, e se siete curiosi l’invito è quello ad approfondire l’articolo, perché ben scritto e sensato. Purtroppo lo scenario sembra ancora di là da venire, e non aiuta che l’amministrazione locale non sia riuscita a trovare una soluzione solida per la nuova arena.
A questo punto bisogna mettersi in pari col cuore, somatizzando l’idea che forse potremmo arrivare non solo ai dieci, che sono dietro l’angolo, ma forse persino ai vent’anni senza Seattle in NBA.
Vent’anni. Senza Seattle. In NBA.
Solo il sottoscritto è terrorizzato da questa frase?